Quando nacque la mia primogenita, nel 1986, come ogni mamma felice scelsi il nome con grande consapevolezza.
Doveva essere breve e suonare bene col cognome, non straniero (tutte quelle Katiuscie e Gessiche, scritte in tutti i modi e in tutte le salse!), ma neppure troppo frequente (in quel periodo andavano di moda Valentine, Giulie e Martine, che poi mia figlia a scuola se n’è trovate cinque o sei in contemporanea).
Insomma, dal libro dei nomi avevo infine scelto Teodora. Per il suo significato etimologico, che rispecchiava la mia gioia di quel momento (“dono di Dio”), gioia che dura tuttora, naturalmente. Poi, per rispetto a mio marito, non credente, pensai bene di abbreviare in Dora.
Solo qualche anno dopo la nascita della pargola scoprii che a Rimini “andare dalla Dora” è un modo di dire radicato e non proprio semplice da spiegare ad una bimba. Ne sorrideva, qualche tempo fa, anche Sergio Zavoli, a cui raccontavo questa storia familiare. Ci ho sorriso pure io. “Vabbè – mi sono detta – il nome che ho scelto per il mio ‘dono’ è comunque meraviglioso e originale. Ce ne sono così poche, di Dora come la mia…”
Per i lettori non riminesi viene utile una breve spiegazione.
Fino al 1958 “la Dora” di Rimini era la più nota tenutaria di casa chiusa, in via Clodia, la strada dei bordelli (come via delle Oche a Bologna, per intenderci, quella in cui è ambientato l‘omonimo racconto di Carlo Lucarelli). La Dora cambiava le ragazze ogni due settimane e per mettere in mostra i nuovi arrivi (ah, la pubblicità!) organizzava un giro in carrozza.
Ritroviamo “la Quindicina” della Dora anche nelle immagini di Fellini e nei racconti di Zavoli.
“Le falene, così erano chiamate dagli studenti, arrivavano in città un sabato sì e uno no, come reparti che si diano il cambio sulla linea del fronte. Una catena che non oso chiamare di Sant’Antonio, teneva legate l’una all’altra le ‘case’, un provvido scambio quindicinale serviva a rinnovare la scena, se non proprio il copione. La domenica, a mezzogiorno, era di rito la passeggiata con la carrozza scoperta perché la gente vedesse. L’esibizione attirava un codazzo di bambini che si arrampicavano schiamazzando sul mantice, respinti da mani quasi materne. I virtuali clienti occhieggiavano dalle finestre, dai bar, dai negozi, valutando pezzo per pezzo quel bouquet di donne offerto all’invisibile platea in un modo che accordasse la propaganda con la discrezione, le regole della salvaguardia privata con quelle della pubblica sicurezza. Così, mentre dalle vetture le ragazze si guardavano intorno, attraverso vetrine e finestre la gente perbene vedeva e non vedeva. Alla fine della passerella – girato l’angolo e presa la strada della stazione, con la città finalmente alle spalle – i cavalli volgevano quasi in fuga verso il mare, sospinti dalle grida festose delle falene. E lo spettacolo, quello innocente, finiva lì.” (da “Romanza” di Sergio Zavoli, 1987, Mondadori Editore).
C’è stata solo un’occasione, ultimamente, in cui avrei volentieri strozzato un attempato signore riminese che in luogo pubblico ha voluto fare il simpatico, secondo me sbagliando tempi e modo.
Ero alla festa annuale dei donatori di sangue in rappresentanza della ragazza, donatrice da tre anni ed impossibilitata ad essere presente poiché studia a Roma, a Tor Vergata. Come lei, un’altra Dora quel giorno veniva premiata con la borsa di studio destinata agli studenti donatori. Al mio turno ho voluto richiamare questa bella coincidenza (lo so, che ogni tanto dovrei stare zitta, lo so!).
“Dora significa dono – ho detto al microfono – e oggi avere due ragazze donatrici di sangue, a Rimini, che portano questo nome mi pare sia un bel segno.”
Il tipo che mi stava premiando (anzi, premiava Dora per vece mia), prende il microfono e dice, sogghignando: “Però ai riminesi di una certa età la Dora fa venire in mente un’altra cosa…”
Mi dispiace solo di non essere stata pronta a rispondergli a tono.
La battuta giusta m’è venuta poco dopo, a scoppio ritardato, quando non avevo più il microfono a disposizione.
“Beh, ho comunque ragione io – gli avrei detto – pensa un po’ quanti bei doni, da parte di ‘quella’ Dora, per i riminesi come te!”
Peccato che ti è venuta in ritardo. Post simpaticissimo! ;-)***
Le battute migliori vengono sempre in ritardo, mannaggia…;-D
Nomi e Regioni spesso sono un problema; quando vi fu il boom del nome Belinda – ispirato dall’attrice allora in voga, Belinda Lee – l’Italia pullulò di bimbe chiamate Belinda.
Ma in Liguria non ve ne fu nessuna…Princy, genovese, di certo lo capisce subito perché. Ai foresti, visto che son placida e certe cose non le scrivo 😉 posso solo suggerire di pensare all’intercalare tipico dei liguri…una paroletta che inizia con b e finisce con n…;-D***
Eppure Belinda è un bel-nome!
Leggevo anche della scelta dei nomi delle macchine: la Ritmo della Fiat in Germania, mi pare, non ebbe successo perché così viene indicato il “ciclo mestruale”….
Saluti da Rimini (in pieno uragano).