Ac fat spulicrét!

Della serie “gli intraducibili”: dopo pataca, cuchèl, invurnìd e compagnia bella, m’è passato sott’occhio un altro aggettivo romagnolo che si può trasporre in italiano se non con largo giro di parole. 
Spulicrét. La definizione che si avvicina di più potrebbe essere “schifiltoso”.
 “Ha diversi significati, spiega meglio Gianni Quondamatteo – Chi è spulicrét è preciso, pignolo, ordinato, schizzinoso. La camicia, le scarpe che compra, o qualsiasi altra cosa, vengono meticolosamente esaminate: guai a che un peluzzo o una macchiolina deturpino l’oggetto. Il nostro è sempre vestito in modo inappuntabile; e a tavola, ovviamente, non è che inghiottisca distratto il cibo. Ci mancherebbe altro! Si dice: ‘E’ fa e’ spulicrét!’ (fa il difficile nel mangiare, affettato nel parlare).”
Vale la pena leggere questa bella poesia di Raffaello Baldini.
Spulicrét
Eun acsè spulicrét a n l’ò mai vést.
Tòtt e’ dé l’era dri a lavès al mèni.
E’ tnéva e’ mangh d’la taza de cafè
vérs d’in èlt, drétt me nès,
e’ bivéva dvò ch’u n bivéva niseun.
D’instèda l’aranciata
u la tuléva sempra sla paiètta.
E ènca tal giuvàchi
guai a sbaiè ‘d bicìr,
léu l’era schiv ad tòtt, un éultum dl’an,
ch’u i era casch ma tèra e’ cuciaréin,
l’a las alé a mità la sopainglàisa.
U n strinzéva la mèna ma niseun,
sla zénta e’ stéva sémpra un pò dalòngh,
e quante qualcadéun u s’arscaldéva
te dizcòrr e u i avnéva trop davséin,
e par di piò magari
e’ spudacéva un pò,
léu u s striséva la faza s’una mèna,
cmé non volénd, cmé ch’u s gratéss la bérba,
e pu invìci la mèna
u s la farmèva vérta sòtta e’ nès,
còuntra la bòcca.
Che nè mèttsi disdài
s’una scaràna chèlda
ch el’era sté sò ‘lòura qualcadéun
u s tuléva piotòst da sté d’impì.
Quant e’ viazéva se treno
u n tuchéva mai gnént, e te smuntè
u s ciappéva me mènfar sa do dàidi.
D’ogni tènt u s faséva tusè plèd
par rinfurzè i cavéll,
mo ènca parchè i cavéll l’éra un ardòtt
‘d pòrbia, ‘d spurchèra, ‘d microbi.
L’éva sémpra paéura dagli infeziòun,
ad ciapè al malatéi, ch’i gli atachéss.
E’ numinèva spèss la Tina ad Zioli
che da burdlàza
te gratès un zgagnùl sal mèni spòrchi
la s’era fata vnì e’ sangh
e tri dé dop la éva quarènta ad févra
e u n gn’è stè gnént da fè.
M’un chèn u n gn’à mai fat una carèzza,
te spazi i n l’à mai vést liché un frencbòll.
L’era sémpra puléid,
ènca un pò profuméd,
parché e’ parfòm in fond e’ disinfèta.
 

E se témp pu la zenta i à capéi,
i n’i stéva tachèd,
e’ barbìr l’éva un raséur snò par léu,
i n’i dmandéva in prèst gnénca e’ giurnèl.
Mo u n’è bastè. L’è mòrt téisgh a trent’an.
Schifiltoso
Uno così schifiltoso non l’ho mai visto. Tutto il giorno era dietro a lavarsi le mani. Teneva il manico della tazza del caffé verso l’alto, dritto al naso, beveva dove non aveva bevuto nessuno. D’estate l’aranciata la prendeva sempre con la cannuccia. E anche nelle baldorie, guai a sbagliare bicchiere, aveva schifo di tutti, un ultimo dell’anno, che gli era caduto per terra il cucchiaino, ha lasciato lì a metà la zuppa inglese, Non stringeva la mano a nessuno, con la gente stava sempre un po’ lontano, e quando qualcuno si riscaldava nel parlare e gli veniva troppo vicino, e per di più magari sputacchiava un po’, lui si strisciava una mano sulla faccia, come non volendo, come se si grattasse la barba, e poi invece la mano se la fermava aperta sotto il naso, contro la bocca. Che mettersi a sedere su una sedia calda da cui s’era appena alzato qualcuno preferiva piuttosto stare in piedi. Quando viaggiava in treno non toccava mai niente, e nello scendere si prendeva alla maniglia con due dita. Ogni tanto si faceva rapare a zero per rinforzare i capelli, ma anche perché i capelli erano un ricetto di polvere, di porcheria, di microbi. Aveva sempre paura delle infezioni, di prendere le malattie, che gliele attaccassero. Nominava spesso la Tina di Zioli, che da ragazza nel grattarsi un foruncolo con le mani sporche s’era fatta venire il sangue e tre giorni dopo aveva quaranta di febbre e non c’era stato niente da fare. A un cane non ha mai fatto una carezza, nello spaccio non l’hanno mai visto leccare un francobollo. Era sempre pulito, anche un po’ profumato, perché il profumo in fondo disinfetta.
E col tempo poi la gente ha capito, non gli stavano vicino, il barbiere aveva un rasoio solo per lui, non gli domandavano in prestito nemmeno il giornale.
Ma non è bastato.

E’ morto tisico a trent’anni.

7 pensieri su “Ac fat spulicrét!

  1. anonima_mente

    grazie per aver condiviso con noi questa mordace poesia
    sembrerebbe incredibile esistano persone così….
    eppure dalle mie parti ne conosco alcune che vivono in tal maniera….
    speriamo che la vita per loro non sia come la chiusa di questa poesia….
    ma di certo la loro diversità non si può sempre e solo addossare agli altri….
    spesse volte sono delle “fisse” mentali che anzicchè diminuire nel corso degli anni vanno incrementandosi
    buona serata
    mentina

  2. mcm Autore articolo

    La va par té, Luca! (traduzione: A te va bene, Luca!)… 🙂

    Hai colto subito la “provocazione”…

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