“Gli uccelli devono essere freschi e grassi; ma soprattutto freschi. In que’ paesi dove si vendono già pelati bisogna essere tondi bene per farsi mettere in mezzo.”
Ecco, già vedo i lettori sorpresi da questa nuova verve erotomane di Cristella...
No, suvvia! Ma che andate a pensare?
Questo è solo l’incipit della ricetta n. 528 della Bibbia dei gastronomi: “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi.
E’ curioso il modo in cui l’Artusi scrive le sue ricette, messe poi in pratica dalla fedele Marietta: un saggio storico e sociologico, più che un semplice libro di cucina. Proprio in questo mese di giugno, dal 21 al 29, a Forlimpopoli si terrà la dodicesima edizione della Festa Artusiana: nove giorni all’insegna di cultura, gastronomia, mostre, mercato, spettacolo.
Potrebbe essere la scusa per un piacevole viaggio in Romagna.
E, comunque, ecco come prosegue la spiegazione per preparare gli “Uccelli arrosto” (ad essere sincera i dettagli olfattivi non invogliano affatto a provarli…).
“Se li vedete verdi o col brachiere, cioè col buzzo nero, girate largo; ma se qualche volta rimaneste ingannati, cucinateli come il piccione in umido n. 276, perché se li mettete allo spiede, oltreché aprirsi tutti durante la cottura, tramandano, molto più che fatti in umido, quel fetore della putrefazione, ossia della carne faisandée come la chiamano i Francesi: puzzo intollerabile alle persone di buon gusto, ma che purtroppo non dispiace in qualche provincia d’Italia ove il gusto, per lunga consuetudine, si è depravato fors’anche a scapito della salute.
Un’eccezione potrebbe farsi per le carni del fagiano e della beccaccia, le quali, quando sono frolle, pare acquistino, oltre alla tenerezza, un profumo particolare, specialmente poi se il fagiano lasciasi frollare senza pelarlo. Ma badiamo di non far loro oltrepassare il primo indizio della putrefazione perché altrimenti potrebbe accadervi come accadde a me quando avendomi un signore invitato a pranzo in una trattoria molto rinomata, ordinò, fra le altre cose per farmi onore, una beccaccia coi crostini; ebbene questa tramandava dal bel mezzo della tavola un tale fetore che, sentendomi rivoltar lo stomaco, non fui capace neppure di appressarmela alla bocca, lasciando lui mortificato ed io col dolore di non aver potuto aggradire la cortesia dell’amico.
Gli uccelli dunque, siano tordi, allodole o altri più minuti, non vuotateli mai e prima d’infilarli acconciateli in questa guisa: rovesciate loro le ali sul dorso onde ognuna di esse tenga ferme una o due foglie di salvia; le zampe tagliatele all’estremità ed incrociatele facendone passare una sopra il ginocchio dell’altra, forando il tendine, e in questa incrociatura ponete una ciocchettina di salvia. Poi infilateli collocando i più grossi nel mezzo tramezzandoli con un crostino, ossia una fettina di pane di un giorno grossa un centimetro e mezzo, oppure, se trovasi, un bastoncino tagliato a sbieco.
Con fettine di lardone, salate avanti e sottili quanto la carta, fasciate il petto dell’uccello in modo che si possa infilare nello spiede insieme col pane.
Cuoceteli a fiamma e se il loro becco non l’avete confitto nello sterno, teneteli prima fermi alquanto col capo penzoloni onde facciano, come suol dirsi, il collo; ungeteli una volta sola coll’olio quando cominciano a rosolare servendovi di un pennello o di una penna per non toccare i crostini, i quali sono già a sufficienza conditi dai due lardelli e salateli una volta sola. Metteteli al fuoco ben tardi perché dovendo cuocere alla svelta c’è il caso che arrivino presto e risecchiscano. Quando li mandate in tavola sfilateli pari pari, onde restino uniti sul vassoio e composti in fila, che così faranno più bella mostra.
Quanto all’arrosto d’anatra o di germano, che sa di selvatico, alcuni gli spremono sopra un limone quando comincia a colorire e l’ungono con quell’agro e coll’olio insieme raccolto nella ghiotta.”
Questa, comunque, è vera cucina. Purtroppo, ormai, siamo abituati all’insalata sottovuto! ;-)***
anche io avevo l’Artusi! Un gran libro..
ciao:)