“Se lo dici ad un ragazzino, a un burdèl, nulla di grave. Ma se è riferito ad un adulto…”
Questo il discorso che ieri – mediato dalla voce e dal cuore della moglie Cetta – m’ha fatto il grande poeta Elio Pagliarani durante una piacevolissima intervista sulle sue origini viserbesi e sul legame mai spezzato con la terra romagnola.
Ritenuto uno dei più grandi esponenti della poesia del Novecento, Pagliarani lasciò Viserba, per Milano, all’età di 18 anni (qui scrisse il poemetto “La ragazza Carla”, l’opera che lo rese famoso). Poi traslocò a Roma, dove vive tuttora.
Il ritorno a Viserba, per le vacanze estive e talvolta anche durante il resto dell’anno, è il ritorno a casa, alla terra madre. E, sicuramente, alla lingua madre.
“Nel periodo milanese e anche in quello romano – conferma Cetta – Elio non ha voluto mai perdere quella dolce inflessione del parlare che contraddistingue i romagnoli.”
Tornerò a raccontare nei dettagli questo emozionante incontro col grande maestro, che immaginavo irraggiungibile (frutto, fra l’altro, della “bacchetta magica” di Cristella, che sa creare circostanze che solo apparentemente sembrano dominate dal caso).
Brevemente, oggi, colgo l’occasione delle quattro chiacchiere con Elio nella nostra lingua madre per aggiungere qualcosa alla mia lista degli “intraducibili”. Una parola suggerita dal poeta col sorriso sulle labbra.
Per chi non lo sapesse: i suoi 82 anni da qualche tempo hanno messo in ombra pezzi di memoria. Ma il suono di qualche frase in dialetto romagnolo, durante l’intervista, ha avuto un esito sorprendente e quasi miracoloso: l’attenzione risvegliata e un sorriso ammiccante.
“I santarcangiolesi sono detti zvulòun, i riminesi sipuléin; e il pataca, l‘invurnìd, paga Palloni…”
“Sì, sì, mi ricordo, si diceva proprio così!”
L’amarcord in dialetto del poeta mi ha regalato, appunto, la frase iniziale del post.
Ecco cosa scrive in proposito Gianni Quondamatteo nel suo Dizionario Romagnolo Ragionato:
Ligéra – teppista, fannullone, vagabondo. L’è na ligéra, si dice senza soffermarsi all’ambiente, al bisogno, alle malattie, alla violenza che si esercita sui diseredati.
Av salùt!
mia mamma classe1914, quando ero cattivo mi diceva t’si una caveza ,una ligera. parole intraducibili per uno che non sia almeno1/2 romagnolo o pesarese.io abito a Godo prov di ravenna. saluti
A Sellero in Valcamonica negli anni ’60 del ‘900 per definire uno scavezzacollo si diceva: “ta hé ‘n lingéra” sei uno scavezzacollo, dove “lingéra” contiene anche una n.