Nato il 6 giugno 1925 a Viserba, domani compie la bellezza di 85 anni “il pescatore” Alfredo Grossi, conosciuto da tutti come Fis-cioun.
Curiosi di saperne di più? Ecco l’intervista a lui dedicata dall’Associazione Ippocampo (Laboratorio urbano della memoria).
Alfredo Grossi? No, è’ Fis-ciuoun, “il pescatore” di Viserba!
Duvè ch’e’ sta Fis-cioun?
Volta so in via Rossini,
a sinéstra po’, la sgonda,
ta t’ trov òna ad cal stradini
ch’la è ziga, che la n’ sfonda.
T’void a destra una capana,
un ch’e’ sbòffa m’un fugoun,
un mòcc’ ad zenta cla sgulvana
e t’si arvat! Ui stà Fis-cioun!
(Dove sta Fischione? Volta su in via Rossini, a sinistra poi, la seconda, ti trovi una di quelle stradine, che è cieca, che non sfonda. Vedi a destra una capanna, uno che sbuffa ad un focone, tanta gente che si abbuffa. E sei arrivato! Ci sta Fischione!)
Le indicazioni per trovare la casa di Fis-cioun erano in un angolino della memoria grazie a questa poesia di Vittorio Valderico Mazzotti ascoltata più volte dalla viva voce dell’autore. Insieme agli altri della troupe dell’Ippocampo (Nerea, Paolo e Loredana) ci siamo presentati puntuali, un sabato pomeriggio di maggio, accolti dalla proverbiale ospitalità di Fis-cioun: non poteva mancare un bicchiere di vino (ottima albana passita “comprata personalmente a Bertinoro”) accompagnato da cioccolatini e biscotti.
Sì, perché Alfredo Grossi, detto Fis-cioun, a Viserba e non solo è conosciuto per aver fatto sedere alla sua tavola mezzo mondo. Come scrive l’amico Mazzotti nel libretto che gli ha dedicato nel 1996… “Nella sua capanna, a Viserba, per diversi anni sono passate non solo molte persone, ma moltissime personalità altolocate che si sono… leccate i baffi (è proprio il caso di dirlo) divorando e, come dico io, ‘rudénd i dint’, davanti alle specialità preparate dai due coniugi sempre disponibili e simpatici come nessun altro.”
Mazzotti parla di “coniugi”: in effetti fino a poco tempo fa i “Fischioni” erano due. Ines, l’amatissima moglie di Alfredo è scomparsa recentemente. Una metà che manca. Si capisce subito, all’inizio dell’intervista. Fis-cioun, infatti, esordisce mostrando l’album dei ricordi, con le immagini degli oltre sessant’anni passati insieme alla sua Ines.
Un viaggio fotografico che inizia con scatti in bianco e nero di lui ragazzo, appena ventunenne. Poi il viaggio di nozze a Roma, nel 1947. I figli, arrivati presto: Giancarlo, Diego, Luisa… Una foto del 1952 ce lo mostra in Argentina, un’altra sulla giostra a Montevideo.
“Mi sono imbarcato giovanissimo – racconta Fis-cioun – Per quattordici anni ho girato il mondo, ma fra navigazione sulle grandi rotte e motopescherecci in Adriatico ho fatto ben cinquantadue anni di mare! Guardate le mie braccia. Questi sono i segni dei legamenti rotti per tirare su le reti. Non c’erano mica i verricelli come ora!”
Fis-cioun era fuochista sulle petroliere. I suoi racconti parlano di una vita dura, mesi e mesi lontano dalla famiglia.
“L’imbarco più lungo durò 33 mesi: partii che mio figlio Giancarlo aveva appena quattro giorni e quando finalmente tornai, quasi tre anni dopo, lui non mi voleva vedere. Era spaventato, non mi conosceva! I contratti erano inizialmente di 18 mesi, poi venivano prorogati. Se non si era nel Nord Europa non si poteva tornare a casa in licenza. Quella volta potei venire a salutare la famiglia perché, finalmente dopo mesi e mesi in Asia, arrivammo in Olanda. Quando morì mio babbo, avevo 23 anni, lo venni a sapere sei mesi dopo. Ero in Giappone e a quei tempi non c’erano i telefonini! Una volta feci un viaggio da Baltimora fino a Odessa, in Russia, per caricare dell’orzo. Proseguii fino a Danzica per un altro carico, poi fino al Giappone e poi ancora fino in Cina per caricare qualche tonnellata di riso. Che vita… Però si guadagnava bene. Ricordo un assegno di 800mila lire, che a quei tempi erano tante, che però in banca, a Viserba, non mi vollero pagare perché era intestato a mia moglie. Spesso erano la Ines con i bambini a venirmi a trovare nei porti dove arrivavo: più di una volta mi sono venuti a salutare a Venezia, Genova, Taranto. Stavo tranquillo, a casa c’era con loro mia suocera Checca. Gran cuoca! Ma la figlia ancora di più! La casa della Checca era sempre aperta, ospitale. Spesso c’era gente sconosciuta a tavola. ‘Ma dai, Fis-cioun – diceva – Non hanno i soldi per fare la spesa, ò fat du strozaprìt in piò, sa vut che sia? (ho fatto due strozzapreti in più, che sarà mai?)’.”
Se la storia di Fis-cioun fosse un musical, si dovrebbe proprio intitolarla “Aggiungi un posto a tavola, che c’è un amico in più…”.
Questa caratteristica è diventata proverbiale. Provate, se non ci credete, a fare il suo nome dalle parti di Viserba: Fis-cioun vuol dire tavolate di gente festosa, vuol dire buon pesce, vuol dire spiedi intagliati nel legno di tamerice e infilati verticalmente su di un letto di sabbia, mentre la brace, ingabbiata al centro di questo cerchio magico e profumato, li cuoce senza toccarli.
“Un sistema tipico dei marinai – spiega Fis-cioun – Fra le cuccette c’era un paranzale, col suo portellino (e’ stènt, cioè il boccaporto), che fungeva da cucina. Lì preparavamo i brodetti e le grigliate… Con quello che pescavamo: triglie, calamari, canocchie, sogliole. Allora sì, che ce n’era! Mica come adesso, che con tutte quelle barche enormi hanno spopolato il mare! Il mio fuocone personale, poi, me la sono fatto costruire da Baietta. Ma lo sapete quanto m’è costato? Un milione e duecentomila lire! E’ un pezzo da museo. A dire il vero, ho regalato molti dei miei attrezzi da pescatore al museo di Viserbella, ‘E’ Scajon’. Tanto, io ho smesso di andare a pescare…”
Le pagine dell’album fotografico scorrono. Per ognuna un ricordo, una frase, il nome di un amico…
“Ecco, questa è la mia prima barca da pescatore, la ‘Fidel Franco’. Poi ho avuto la ‘Bruno V.’ e infine, per quindici anni, la ‘Linda’, finalmente col suo bel radar.”
Dopo gli interminabili viaggi transatlantici, infatti, la carriera in mare di Fis-cioun s’è svolta tutta sull’Adriatico, il mare di casa.
“Io stavo a pescare tutta la notte. Facevo tre o quattro calate. Poi la cernita e il rientro in porto. L’Ines era già lì ad aspettarmi, per correre a vendere alla pescheria. Prima in piazza Cavour, poi alla pescheria nuova del mercato coperto. Ho smesso di andare in mare quattordici anni fa. Le più grandi tavolate le abbiamo organizzate in quei tempi. Il pesce era fresco, garantito! Con gli amici che gestivano l’hotel Morolli, Emilio e la Lella, siamo stati persino in Trentino per la Marcialonga e a Terni. Le rustide per i bagnini di Viserba e dintorni, poi, non si contano!”
Beh, se non s’era capito… dove c’era fumo di rustida di pesce, di sicuro c’era anche Fis-ciuon…
“Una volta ho dato da mangiare anche a Corrado, il noto presentatore. Sarà stato il 1950/51. Che cena! A dire il vero Corrado mi fece un po’ incazz… perché, nonostante tutto quel ben di dio che avevo preparato, mi disse che avrebbe gradito del coniglio!”
Per concludere le storie in punta di spiedino, Fis-cioun si raccomanda: “Col pesce, si beve solo vino Sangiovese! Il bianco una volta lo davano a chi era ricoverato in ospedale. Io lo uso solo per cucinare i sughi.”
Dopo aver annotato ricette e consigli da veri buongustai, ora invitiamo il nostro amico Fis-cioun a sfogliare l’album dei ricordi andando un po’ all’indietro. Siamo curiosi di sapere qualcosa in più dell’infanzia, dell’adolescenza, del passaggio della guerra, di come si viveva a Viserba in quei tempi.
“Beh, potrei iniziare spiegandovi il perché del mio soprannome. Non è quello della famiglia, infatti i Grossi sono detti Babèn. Quand’ero un bambino abitavo qui vicino, in via Rossini. Avrò avuto sugli otto anni. Gli anziani mi facevano paura dicendo che in queste strade ‘si vedeva’ e ‘si sentiva’ (cioè che c’erano degli spiriti, delle streghe). Alòura mè, par fèm curàg, a ciudèva i occ e a fis-céva (allora io, per farmi coraggio, chiudevo gli occhi e fischiavo). Da quella volta mi hanno sempre chiamato Fis-cioun (fischione). Eravamo otto fratelli. La mamma morì quando io avevo tre anni e c’erano pure un fratello e una sorella più piccoli di me. Ci fece da mamma una delle sorelle grandi. Avìma ‘na miséria c’as magnéma agli urèci (avevamo una miseria, che ci mangiavamo le orecchie). Poi il babbo si risposò con una donna che aveva quattro figli. Sapete, quando si sposavano due vedovi, si faceva una ‘serenata’, per deriderli un po’. Era una tradizione della Romagna. Siccome mio fratello ed io partecipammo a questa cosa, il babbo non la prese molto bene e ci riempì di botte. Com’era Viserba? Beh, intanto c’erano un sacco di locali da ballo, il Kursaal, e tante ville di professori e gente importante. La spiaggia era bellissima: sulla linea del mare c’era solo la pensione Adriatica e qualche villa. Si, proprio come in questa cartolina: dalla spiaggia partivano quattro dighe in verticale, dalle quale noi, ragazzi, ci tuffavamo in mare. Bagnini? C’era Bisugnìn (Pino), fratello di mia suocera. E le tende in tela, coi picchetti piantati sulla spiaggia, che erano da spostare a seconda di come girava il sole. Ai tempi della guerra i tedeschi mi catturarono, con mio babbo e mio fratello, e ci rinchiusero nella Corderia. Riuscii a scappare attraverso uno strettissimo cunicolo sotterraneo che dalla fabbrica sboccava nella Fossa dei Mulini. Pieno di ferite e sanguinante, ma salvo. Rimasi nascosto per quattordici giorni sopra un albero, a Viserbella, e mia sorella mi mandava qualcosa da mangiare con un cestino legato a una corda. Avevo dato un pugno a un tedesco: guai, se mi avessero trovato! La pensione Adriatica venne bombardata. Alla fine della guerra nelle cantine trovarono quattro tedeschi morti!”.
Ma i ricordi, per fortuna, non sono solo legati a guerra e miseria.
Fis-cioun alleggerisce il suo narrare con un’immagine che ci appare come proiettata su di un grande schermo pieno di luce e di colori.
“I delfini! Quanti delfini passavano al largo! Anche dalla battigia se ne potevano vedere branchi interi. Non erano molto amati dai pescatori, perché distruggevano le reti. Tra l’altro, non so per quale motivo, negli anni Trenta una legge promulgata da Mussolini dava cinquecento lire a chi catturava un delfino femmina. Comunque, per dirvi che spettacolo era la nostra Viserba, in quei tempi uno dei passatempi preferiti dai villeggianti era quello di assistere, anche per una mezza giornata, al passaggio dei delfini vicino alla costa, allo spettacolo dei salti e degli spruzzi che questi producevano nell’acqua limpida!”
Vogliamo finire in rima, così come abbiamo iniziato?
Per chi pensava di trovare Fis-cioun impreparato (in tutti i sensi), ecco la risposta.
“Sapete – dice strizzando l’occhio con fare birichino – Da tempo ho già scritto la frase che sarà messa sulla mia tomba.”
Qui giace Grossi Alfredo detto Fis-cioun
U’n a né albérgh e né pensioun
Ma se tòt a vléi,
avnéi a magnè ma chèsa sù.
Enca sa’ m magn e’ mi barchèt,
basta cum rèsta e’ mi casèt.
(Non ha né alberghi, né pensioni. Ma se tutti volete, venite a mangiare a casa sua. Anche se mi mangio il mio barchetto, basta che mi resti la mia casetta).