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Martino e Tonino Guerra: le farfalle della libertà

Alla farfalla il poeta romagnolo Tonino Guerra ha dedicato una bella poesia ed alcuni disegni che gli artigiani dell’Antica Stamperia Pascucci di Gambettola hanno recentemente utilizzato per tovaglie, cuscini, tende...
La Farfàla
Cuntént própri cuntént
a sò stè una masa ad vólti tla vóita
mó piò di tótt quant ch’i m’a liberè
in Germania
ch’a m sò mèss a guardè una farfàla
sénza la vòia ad magnèla.
La farfalla
Contento proprio contento
sono stato molte volte nella vita
ma più di tutte quando mi hanno liberato
in Germania
che mi sono messo a guardare una farfalla
senza la voglia di mangiarla.

Tonino Guerra è stato prigioniero dei nazisti come mio padre Martino. Ha sempre raccontato, Tonino, che proprio nel periodo di prigionia il dialetto romagnolo, con l’atmosfera che sapeva ricreare, fu un’ancora di salvezza per lui e per i compagni conterranei. I suoi racconti nella ‘lingua madre’ facevano risentire suoni e profumi e tentavano di ricreare, almeno un po’, il calore di casa. Mi piace pensare che forse anche mio padre era fra quei compagni che Tonino ha riscaldato con le sue poesie.
E’ mi bà l’è sté prisunìr in Polonia. E racuntèva sempar che i l’aveva mandé a lavuré da dì cuntadéin. La fiòla de padroun l’ a s ciamèva Marta e la s’era un pò inamurèda de mi bà. “Wenn Krieg ist fertig, ich komme in Italien mit dir, Martino!”. Par furtouna l’a n’è vnouda, la Marta: mé a n saréb mai nèda. A cà u’i era la mi mà, la su bèla murousa, ch’l aspitèva!
Il mio babbo è stato prigioniero in Polonia. Raccontava sempre che lo avevano mandato a lavorare da dei contadini. La figlia del padrone si chiamava Marta e si era un po’ innamorata del mio babbo. “Quando la guerra sarà finita, io vengo in Italia con te, Martino!”. Per fortuna non è venuta, la Marta, io non sarei mai nata. A casa c’era la mia mamma, la sua bella morosa, che lo aspettava!
Per ricordare i circa 700.000 italiani che, come Martino e Tonino, sono stati prigionieri in tempo di guerra, proprio in questi giorni a Rimini si può visitare una mostra fotografica, a cui ho dedicato il seguente articolo.

Resterà aperta fino al 28 ottobre al Palazzo dell’Arengo, in piazza Cavour, la mostra fotografica “Prigionieri per la libertà” organizzata dal sindacato Cisl. Si tratta di un interessante percorso della memoria che ricorda la vicenda degli internati militari italiani durante la seconda guerra mondiale: una ventina di bozzetti in bianco e nero e a colori e oltre cento immagini scattate dal tenente di Marina Vittorio Vialli, geologo appassionato di disegno e fotografia. I luoghi sono quelli condivisi dai circa 700.000 soldati catturati dopo l’armistizio badogliano: i campi di prigionia tedeschi e polacchi. Le date sono incise nella storia: dall’8 settembre 1943 fino alla liberazione avvenuta nella primavera del 1945. Vialli fotografa il momento della partenza da Corinto dopo la cattura; il viaggio sui vagoni da bestiame durato trenta giorni; la vita quotidiana condivisa coi suoi compagni, con fame e violenze gratuite; l’arrivo del primo mezzo corazzato inglese che li liberò; il ritorno in patria nell’estate del ’45. “Ci auguriamo che la mostra diventi itinerante – hanno detto i responsabili della Cisl durante l’inaugurazione – Questi italiani, rifiutandosi di aderire alla RSI e per questo catturati dai tedeschi che li ritennero traditori, hanno rappresentato una ‘prima Resistenza’, come ha recentemente dichiarato il presidente Napolitano. Le fotografie sono a disposizione di scuole, comuni, sindacati e associazioni che volessero richiederle.” Fra il numeroso pubblico presente all’inaugurazione, anche alcuni reduci: ultraottantenni fieri e commossi nell’indicare ai più giovani i luoghi della prigionia ben evidenziati sulla grande carta geografica posta all’ingresso. Per loro, i “lavoratori coatti” o “schiavi di Hitler” che i tedeschi obbligarono a condizioni disumane in miniere, fabbriche e fattorie, pesa ancora la beffa del mancato riconoscimento di qualsiasi indennizzo da parte della Repubblica Federale Tedesca. Su 120.000 domande presentate attraverso i patronati sindacali nel 2001, solo 3.000 sono state accolte (se la prigionia era per motivi razziali o religiosi). “Lei è stato un Internato Militare Italiano, non un detenuto in campo di sterminio”, questo si legge nella “giustificazione” inviata dallo IOM di Ginevra (l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) al signor Martino Muccioli, classe 1917 e scomparso nel 2002. Fu catturato in territorio dell’ex Jugoslavia il 10 settembre 1943 e per quasi due anni sudò in una fattoria polacca, dormendo nelle stalle accanto alle bestie. Altra sorte, invece, per le domande di indennizzo di chi lavorò in territorio austriaco. “A mio padre Elio, ex combattente e catturato in territorio albanese – racconta l’assessore Roberto Biagini – arrivò un assegno di circa 2.500 euro da parte della Fondazione di Riappacificazione Austriaca proprio il giorno prima della morte, il 9 settembre 2005.” Esattamente sessantadue anni dopo quello storico 8 settembre. Magra consolazione, verrebbe da dire. Come quella, del tutto simbolica, della proposta contenuta nella legge finanziaria 2007 per il conferimento di una medaglia d’onore “a tutti i cittadini deportati e internati nel lager nazisti” (art. 1, commi dal 1271 al 1276). Loro, i pochi ex deportati ancora in vita, aspettano ancora. Ai più, la medaglia, se ci sarà, verrà portata sulla tomba.
La mostra è aperta tutti i giorni (escluso lunedì), dalle 9.30 alle 12.30 e dalle 16.30 alle 19.30.

[tags] Tonino Guerra, mostra, resistenza[/tags]

Prossimamente su questo schermo: “La cementificazione di Rimini Nord non si ferma all’ex-Corderia”.

Ancora in situazione di stallo causa black out domestico, utilizzo il webmaster Doruchan per postare “a distanza” (lei è a Roma, raggiungibile tramite email, possibilità che l’internet point pubblico mi dà, grazie a Dio).
Torno a parlare dell’ex Corderia di Viserba, ancora oggetto di dibattito (decisamente acceso, con lancio incrociato di coltelli, verrebbe da dire) in Quartiere, segnalando il bell’articolo di Michele Marziani sul suo blog Appunti di viaggio.
Sulla trasformazione della zona di Rimini Nord, in questi ultimi 10-15 anni oggetto di un’edificazione selvaggia, ho scritto pagine intere su Il Resto del Carlino e su Il Ponte. Purtroppo altre ne verranno: proprio in questo periodo sto preparando un’inchiesta su tutti gli altri progetti che sono ancora sulla carta, quasi tutti già approvati, che aggiungeranno cemento a cemento.  

La questione della nuova fotografia di questo quartiere implica più di un problema. Primo fra tutti la mancanza di infrastrutture e di servizi: asili, scuole, centri aggregativi, piazze con panchine per gli anziani, strade adatte all’aumento esponenziale del traffico. Ci si chiede anche chi comprerà tutti questi appartamenti. Pare infatti che ci sia un po’ di crisi di mercato: scorrendo le pagine degli annunci, si capisce che l’offerta già ora supera la richiesta (prezzi molto alti, dicono).

Last, but not least: questa era una zona a vocazione turistica, “produttiva”, in tal senso. Voglio dire che pensioni, alberggi, negozi davano lavoro a centinaia, forse migliaia di donne e uomini. Ora, con la trasformazione in “dormitorio” del quartiere, anche le strutture alberghiere tendono a virare rotta, preferendo appendere l’insegna di “residence”. Tradotto: meno turisti e conseguente cancellazione delle opportunità lavorative.
Vorrei avere una macchina del tempo per vedere come sarà la mia Viserba fra dieci anni. Avrò quasi l’età della pensione, mi piacerebbe essere già nonna. Mi chiedo se ci saranno spazi (e la possibilità fisica) per uscire di casa spingendo un passeggino senza mettere a rischio l’incolumità, se ci sarà qualche parco ombreggiato dove fermarsi a chiacchierare con le altre nonne, un luogo dove incontrare altre persone e fare attività culturali (non le solite partite a carte e i valzer dei centri anziani di oggi, per favore!).
Potrei anche pensare di cambiare città, ma temo che il problema sia condiviso quasi ovunque…

T’ci propri un invurnìd!

Tornando a casa dall’ufficio in sella alla mia bicicletta elettrica, oggi pomeriggio avevo la testa fra le nuvole – come capita abbastanza spesso – e pensavo alle due settimane di ferie che mi attendono…

Disegnato al centro del centro della città di Rimini (l’antica piazza del Foro, oggi piazza Tre Martiri) da qualche anno c’è un grande sole. Ogni volta che passo di lì, come gesto forse scaramantico, ho la mania di voler tagliare il sole esattamente a metà (un po’ come quando, camminando, cerco di non calpestare le righe fra le mattonelle…).
Insomma, per farla breve: distratta com’ero, ho rischiato di investire una coppia di anziani signori che, a biciclette appaiate, tagliavano il sole nell’altro verso.
Os-cia, ac invurnìda!”, mi ha gridato dietro uno di loro, quello che ad una prima occhiata sembrava ancor più rintronato della sottoscritta.
Invurnìd, invurnìda: chi frequenta un romagnolo avrà già sentito questo termine.
E’ un po’ come pataca, non facile da tradurre tutto d’un colpo.
Secondo Friedrich Schurr (professore austriaco che si specializzò nello studio del dialetto romagnolo), l’etimologia di questa parola deriva dal latino volgare ebrionia (da cui deriva pure il toscano sbornia e il francese ivrogne).
Gianni Quondamatteo, nel suo Dizionario Romagnolo Ragionato, spiega: “invurnìd significa stordito, intontito, istupidito, sciocco, tonto, tardo. In molti casi senza commiserazione alcuna, ma con un pizzico di rabbia, di cattiveria. Sa sit invurnit oz? (Sei invornito, oggi?) dici quando trovi un lavoro malfatto. Se gli autori sono più d’uno, invece, J è na squedra d’invurnìd! (Sono una squadra di invorniti). Di una persona anziana dici: ormai l’è bèla dvènt invurnìd (Ormai è quasi diventato un invornito).”

Per fortuna i freni della bicicletta hanno funzionato. Altrimenti, i giornali di domani titolerebbero:

Con la testa fra le nuvole oscura il sole della piazza
Invornita di mezza età investe due attempati pataca
Tutti i particolari nella pagina degli spettacoli


Oltre che invornita, pure curiosa: qualcuno sa come si traduce in altre lingue e in altri dialetti?

“Sorellanza” è anche tramandarsi una ricetta di stagione

Fino a quattro mesi fa quando avevo bisogno di qualche consiglio (o magari soltanto di una piccola consolazione), facevo un numero di telefono di Gatteo a Mare. E’ il luogo dove sono cresciuta, venti chilometri a nord da qui, appena al di là dello storico fiume Rubicone (il grande passaggio, in senso contrario a quanto fatto da Cesare, io l’ho vissuto nel 1983, col matrimonio).

Immancabilmente, a quel numero rispondeva la dolce voce della mamma.

“T’é voja ad tètta?” (hai voglia di tetta?), scherzava, immaginando che una richiesta del tipo “voglio fare la seppia con piselli, mà, cosa devo mettere giù prima, la seppia o i piselli?”, in realtà significasse “mamma, oggi sono un po’ in crisi e avevo voglia di sentirti”.

Ora quel telefono suona a vuoto.

Per fortuna, però, non sono figlia unica e la mamma ha lasciato in eredità i suoi tanti saperi alle mie due sorelle e a mio fratello, oltre che a me.

Teresa è la maggiore, ci separano dodici anni. Quand’ero bambina è stata una vice-mamma. Ora è il telefono di Teresa a squillare più spesso. Tutti la chiamiamo, quasi quotidianamente, per sapere… come si cucina la seppia con i piselli.

L’ultima volta che sono andata a trovarla mi ha regalato un barattolo di delizie: i fichi sciroppati come li faceva la mamma.

Ecco la ricetta, giusta per il mese che inizia oggi.

“Cogli l’attimo fuggente – direbbe qualcuno – E, per non perderne il sapore, conservane un po’ per i mesi più freddi”.

Magari si potesse fare così con tutte le cose buone (e belle)!

Fichi sciroppati di Teresa
Ingredienti
4 chili di fichi “tosti”, appena colti, col loro picciolo
1 chilo di zucchero
la buccia di un limone
Preparazione
In un pentolone antiaderente (vanno bene quelli di acciaio col fondo grosso) si mettono quattro chili di fichi interi col loro picciolo, precedentemente lavati e scolati, un chilo di zucchero e la buccia di un limone (la parte gialla) tagliata a striscioline o dadini.
Si lascia sul fuoco finché lo zucchero si è trasformato in sciroppo e i fichi cambiano colore e diventano marroncini.
Si mettono ancora caldi nei barattoli di vetro puliti, si chiudono e si lasciano raffreddare lentamente (anche due giorni) avvolti in panni o coperte.

Si mangiano anche dopo mesi.

A me piacciono insieme ai formaggi o sopra le cantarelle.

Buoni anche sulla piada calda, magari distesi sopra ad un leggero strato di stracchino fresco.

Io ho già l’acquolina in bocca? E voi?

Bentornato, webmaster!

Ah, che comodità avere un webmaster efficiente e disponibile…

Non so, alla fine, quanto questo mi costerà a livello economico. Penso proprio che la paghetta mensile per Dora dovrà venire adeguata ai risultati di operatività che la ragazza sta dimostrando!

Fra ieri ed oggi Dora ha aggiornato il sito.

Segnalo, per chi avesse voglia di leggere, il testo Mamma Pierina, in parte preannunciato nel blog col post E’ già passato un mese, caricato sotto il titolo Piccole grandi donne di Romagna in Romagna e dintorni.

In Libri, nella sezione riservata a Trama e ordito, è stata aggiunta una fotografia della mia seconda figlia, Cinzia, e alcune delle più belle recensioni al libro pubblicate sulla stampa locale.

Buona lettura…