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I òman i’n chènta piò

Tempi di pulizie e rivoluzioni di stanze, armadi e librerie, in casa. Come per magia saltano fuori dai cassetti ricordi fatti di libri, quaderni, foto e appunti vari.

Apro un bel quaderno a spirale con fogli decorati da farfalle e – sorpresa! –  nella prima pagina trovo la testimonianza, in dialetto, raccolta dalla voce della mia sorella maggiore, Teresa. Porta la data del 15 ottobre 2001.

La Flora che viene qui citata è la sorella della famosa soprano Lina Pagliughi. Le Pagliughi vivevano in una bella villetta in fondo a via Forlì, a Gatteo a Mare.

Teresa per anni è stata la loro sarta e in seguito le ha aiutate nei lavori di casa. Dopo la scomparsa di Lina, mia sorella ha seguito Flora con affetto assistendola per tutte le incombenze quotidiane rese difficili dall’età molto avanzata.

Mio babbo Martino per anni è stato il giardiniere delle Pagliughi. Lina amava molto le rose e il suo giardino, grazie a Martino-Panarèt, era un trionfo di colori e profumi.

Ma, ecco cosa mi ha raccontato Teresa a proposito di Flora.

I òman i’n chènta piò

T’al sé quel c’l’am gìva la Flora?

“I òman, Teresa, una vòlta i cantèva e i fis-cèva, quand i andèva par la strèda. Fòrt, dé e nòta. Adès, i stà tòt zét. Quand i camèina e i và in biciclèta, i à sèmpra un gran mòus. “

L’a’m racuntèva ‘sta stòria tòt i dé, ènca poc prima ad murì. E po’ l’a m gìva: “U i è stè sol un òm che e’ fis-cèva e e’ cantèva par la strèda quand ch’i iltar i avéva smés da un bèl pèz. L’éra e’ nòst pustéin. E’ faséiva un malàn, quand l’arivèva! U’n avéva bsògn ad busè a la pòrta: u’s santéiva arivé ch’l’éra ancòura lazò vaiòun. E pù, t’a l sé, Teresa? E’ nòst pustéin l’éra un gran poeta. Pénsa che dop c’u’m avéva dè la posta, e’ giva: ‘Salutém la Bina, la Lina e la Paolina…’ Tòt al vòlti, l’éra un salùt s’la rima!”

E’ po’?

“E dòp e’ partiva ancòura s’la su biciclèta e la su bursòuna pìna. E e’ fis-cèva. L’è stè lò, l’ultam òm ch’ò santì fis-cè par la strèda: e’ pustéin cantaréin.”

Gli uomini non cantano più

Lo sai cosa mi diceva la Flora?

“Gli uomini non cantano più, Teresa. Una volta cantavano e fischiavano, quando andavano per strada. Forte, giorno e notte. Adesso stanno tutti zitti. Quando camminano e vanno in bicicletta, hanno sempre un gram muso lungo.”

La Flora mi raccontava questa storia tutti i  giorni, anche poco prima di morire. E poi mi diceva: “C’è stato solo un uomo che fischiava e cantava per strada quando gli altri avevano smesso da un bel pezzo. Era il nostro postino. Faceva un baccano, quando arrivava! Non aveva bisogno di bussare alla porta: si sentiva arrivare che era ancora laggiù. E poi, lo sai, Teresa? Il nostro postino era un gran poeta. Pensa che dopo che mi aveva consegnato la posta, diceva: ‘Mi saluti la Bina, la Lina e la Paolina’. Tutte le volte, un saluto in rima.”

E poi?

“E dopo partiva. Ancora con la sua bicicletta e la sua borsona piena. E fischiava. E’ stato lui, l’ultimo uomo che ho sentito fischiare per strada. Lui, il nostro postino canterino.”

25 settembre 1944. Il pleuvait sans cesse, ce jour-là…

Sì, è vero: bisogna guardare al futuro, basta con queste storie del passato, del “si stava meglio quando si stava peggio…”

Ma certi avvenimenti del passato non vanno dimenticati. E’ dovere civile (e del cuore) volgere lo sguardo indietro, ogni tanto.

Nel 1944, in questi giorni, il territorio a Nord del fiume Marecchia era campo di battaglia. Il “fronte”, raccontato così tante volte dai miei genitori e dai loro coetanei, si fermò a lungo, anche a causa delle continue piogge che avevano reso i campi simili a pantani. Si pensi che Rimini fu liberata il 21 settembre e Gambettola, una ventina di chilometri più a nord (il luogo dove s’è svolta la tragedia della mia famiglia), soltanto il 15 ottobre. Giorni e notti di sangue, morte, distruzione, terrore…

Come si può non ricordare e rendere omaggio a tutte le innocenti e ignare vittime civili?

Lo “devo” a mia madre e a mio padre, ma anche al nonno e agli zii che non ho mai conosciuto.

Lacrime e rocca: il filo di ricordi di mamma Maria

Da “Trama e ordito, mamme che tessono la vita” – 1999.  Continua a leggere

Agli uraziòn de mi bà

“Cantilene e filastrocche – scrive Vittorio Tonelli nel suo libro ‘La veglia nella Romagna dei nonni‘ – entravano in certe preghiere, più ludiche che mistiche. E’ il caso di ricordare ‘L’urazion ad Sènta Cièra’, in un frammento da me appreso (dialettofono com’ero) sulle ginocchia materne:

L’urazion ad Sènta Cièra

banadet a chi l’impèra!

U l’impèra un peligren

che l’è sgnet a San Marten.

La su mama la i dé ‘na pena d’or

e e’ su fiol u n’l’ha avluta,

u l’ha buteta sovra una rora.

La rora la vulteva…

Tòtt è mond u si spianeva!

La filastrocca-preghiera, cantata come una ninnananna, costituiva una sorta di sonnifero per i piccoli. Le mamme lo sapevano e li invitavano ad andare in camera, anche se recalcitranti, non volendo correre il rischio di vederli stramazzare sull’arola calda e piuttosto bassa, rialzata com’era sul pavimento solo una ventina di centimetri.”

Leggendo queste pagine, a Cristella tornano in mente le filastrocche-preghiere del babbo, che ogni volta provocavano l’arrabbiatura della mamma. Peccato averne registrate solo alcune. Come queste, raccontate da Panarèt (Martino Muccioli) il 6 luglio 1996, all’epoca 79enne.

Domine subisco,

è passato e non l’ho visto.

E’ passato sotto il letto,

ha rubato il scaldaletto.

 

“Dire il Patèr”, significava “recitare il Rosario”, abitudine di ogni sera in tutte le famiglie, mentre le donne di casa facevano la calzetta. Ecco, allora:

Patér, nustèr,

una calzèta ad fèr,

una calzèta ad lèna,

e’ Patèr a l gém

stèlta stmèna.

 

L’incipit del “Requiem aeternam”, infine, per Panarèt diventava uno scherzoso:

Réchia materna, vècia sta ferma...

 

La vecchia che doveva stare ferma forse era la nonna? Chissà.

Nelle intenzioni, non c’era sicuramente irriverenza verso la religione: chissà se il Paradiso Panarèt se l’è guadagnato lo stesso?

 

Viserba, il delitto Pascoli e Pajarèn (detto Bigecca)

“Primo verdetto di colpevolezza dopo 145 anni per l’omicidio di Ruggero Pascoli, il padre del poeta. E’ stato rovesciato il verdetto del 2001: per la prima volta il celebre omicidio Pascoli ha tre nomi: Pietro Cacciaguerra, mandante, Michele Della Rocca e Luigi Pagliarani, esecutori…”

E’ cronaca di questi giorni. Il tribunale, dopo 145 anni, ha finalmente condannato coloro che, al tempo, furono solo sospettati.

Una storia, il delitto Pascoli, che s’intreccia in varia maniera con quella di Viserba.

Il primo riferimento è su quel Pagliarani (detto “Bigecca”) indicato come uno dei due sicari. Pare fosse un avo del nostro poeta Elio Pagliarani, come raccontato da quest’ultimo nell’autobiografia (Pro-memoria a Liarosa) nel brano riportato qui sotto.

L’altro riferimento (un intreccio davvero intrigante…) è con la vicenda della famiglia della mia amica viserbese Donata Ciavatti, che nel libro “La forza del coraggio” racconta la storia del bisnonno, Pietro Giani, condannato innocente per il delitto di un fattore della tenuta dei Torlonia. Dopo aver passato 28 anni alla catena Giani fu liberato grazie alla confessione del vero colpevole. Donata ipotizza, nel suo libro, che il bisnonno fosse stato incarcerato per il delitto Pascoli (i tempi e i luoghi corrispondevano), ma non è mai riuscita ad approfondire per la sparizione di alcuni documenti giudiziari.

Ma forse il testo di Elio Pagliarani porta luce sull’ipotesi di Donata: che il delitto del fattore fosse quello di Gori, l’altra vittima citata nel Pro-memoria?

Lancio a chi di dovere (o a chi “di piacere”) la sfida di un ulteriore approfondimento di queste ricerche storiche, mentre vi lascio alla lettura del capitolo del Pro-memoria in cui Elio parla dei Pajarèn e di Mariù Pascoli.

“I tre rami dei Pagliarani. Mariù Pascoli”.

(di Elio Pagliarani, da “Pro-memoria a Liarosa, Marsilio Editore 2011).

Come mi spiegò una ventina d’anni fa il fratello di Tonino Guerra, son tre i rami dei Pagliarani diramatisi dalla zona di Sant’Arcangelo; quello di ricchi o benestanti, detto dagli amici non ricordo più se Pajarèn ‘dla Chesa o Pajarèn ‘dla Piaza, perché avevano case nella piazza principale di Sant’Arcangelo, mentre dai nemici il loro capofamiglia era detto Pajarèn e’ Brot, Pagliarani il Brutto, perché evidentemente non abbondavano in prestanza; i Pagliarani poveri erano divisi in due sottogruppi, quelli poveri e bonaccioni o lamentosi erano chiamati Pajarèn Bisugnèn (bisognevole?, bisognoso?), mentre quelli da prendere con le molle erano i Pajarèn S-ciupàz (da schioppo): dunque non soltanto mio nonno, ma anch’io sono un Pajarèn S-ciupàz; fino a vent’anni fa credevo che fosse soltanto il soprannome del nonno, invece Guerra mi spiegò bene che riguarda tutto un ramo, come ho detto. E credo proprio che fosse il ramo così tanto odiato da Mariù Pascoli.

I miei Pagliarani stavano a Casale almeno dal Seicento, mezzadri dei frati del convento (dunque dimezzati anch’essi, ma senza l’onta di un padrone diretto, fisicamente concreto e concretizzabile) e il nonno Cesare verso la fine dell’Ottocento si fece dare la sua parte di stime e uscì dalla  terra, diventando commerciante di cavalli e di bestiame in genere. Casale è a due o tre chilometri da San Mauro, e ci confina, e Mariù Pascoli come ho detto odiava talmente i Pagliarani da subire un giudizio e pagare una penale di venticinque lire per essersi rifiutati, lei, e assecondata da Giovanni, di ricevere in casa loro a Castelvecchio di Barga una domestica, Nina, fatta assumere dai loro parenti Pascoli in Romagna, appena seppero che faceva di cognome Pagliarani. E certo un Pagliarani, Luigi, detto “Bigecca” fu indiziato, con altri e poi prosciolto in istruttoria, nelle indagini sull’assassinio di Ruggero Pascoli, come racconta appunto Mariù nelle sue memorie. Me lo segnalò Mario Luzi, una volta che lo incontrai (in Georgia, Urss, nel ’66), e appena mi fu possibile cercai di documentarmi sulla faccenda. Intanto ero sicuro che se la mia famiglia fosse stata coinvolta nell’assassinio del Pascoli l’avrei saputo, se non altro perché a Viserba abitava quel chiacchierone arteriosclerotico del ferroviere in pensione Tognacci, di San Mauro, e grande amico della famiglia Pascoli (oltre che padre di quel mio professore di disegno). Lui che allevava pere così grandi (una volta – raccontava – chiamò la moglie, e quella rispose immediatamente e il suono della voce gli fece capire che era vicinissima, ma lui non riusciva a vederla: per forza, stava nascosta dietro una pera!) avrebbe gridato dietro “Assassino!” anche a me bambino, quando passavo vicino a casa sua, fossimo stati in qualche modo implicati nella faccenda (un sacerdote Tognacci battezzò proprio Giovanni e altri figli di Ruggero Pascoli).

Quanto a Bigecca, c’è da dire che fra quelli che lo scagioneranno c’era anche Raffaele Pascoli, detto “Felino” fratello minore di Giovanni, e dico il fratello minore buono, non la pecora nera della famiglia Pascoli, cioè Alessandro Giuseppe, che aveva tre soprannomi, come si legge nelle memorie di Mariù: nei momenti buoni era detto Peppe, nei momenti così “Lascaro” e nei momenti peggiori “Paglierani” (qui con la ‘e’) anche perché aveva, secondo Mariù, anche la colpa di aver sposato una vedova Pagliarani con relativi figli di primo letto.

La verità più probabile di questo odio di Mariù è invece dovuto al fatto, secondo me, che Luigi e altri Pagliarani erano o erano stati compagni di osteria e di discorsi socialisteggianti, non solo dei fratelli minori Raffaele e Alessandro Giuseppe, ma anche dello stesso Giovanni, il quale anche se probabilmente non bazzicò mai osterie ebbe da giovane trascorsi e amicizie anarchiche e socialiste, come sappiamo, e si beccò anche il carcere a Bologna semplicemente per essere andato ad assistere al processo di Andrea Costa.

A proposito del delitto Pascoli voglio anche ricordare che in quel periodo non fu ucciso soltanto il fattore-capo o intendente Ruggero Pascoli, ma anche un fattore Gori, sempre alla tenuta La Torre dei Torlonia: anche i Gori fecero a suo tempo le loro indagini e il risultato fu il medesimo di quello di un’inchiesta ufficiale o ufficiosa sul delitto Pascoli: certi mesi dell’anno i mezzadri della tenuta La Torre usavano arrotondare le loro entrate facendo un notturno e ovviamente clandestino contrabbando di sale delle vicine saline di Cervia, e a un certo punto Ruggero Pascoli volle impedirlo, sia perché la faccenda era contraria alle legge sia perché i contadini rendevano di meno nel lavoro dei campi in quel periodo in cui la notte facevamo i contrabbandieri: in questo clima maturò l’assassinio dei fattori Pascoli prima e di Gori poi, ci sia stato o no qualcuno che – come ha sempre pensato Giovanni Pascoli – abbia manovrato la faccenda per carpire l’importante incarico che Ruggero Pascoli aveva nella tenuta dei Torlonia.

“Se tu fossi quella che io direi dovresti essere…”

Giuseppe Argenziano, 75 anni, è un pensionato che ama la poesia.
Laureato in geologia, ha insegnato al liceo scientifico di Termoli (CB) e poi, per 10 anni. all’Istituto Professionale Alberti di Rimini. Abita a Santa Giustina ed è socio della Banca del Tempo Q5 di Rimini.

Nella 4^ edizione del premio letterario “Città di Corridonia”, dal titolo “Voci della nostra gente”, è stato segnalato come autore in rappresentanza della Romagna, per la poesia, “Ricordi”, dove Argenziano racconta di un amore vissuto da giovane..

Ma a Cristella piace molto anche “Ti voglio così come sei”, poesia dedicata alla moglie Maria Maura, anche lei socia della Banca del Tempo.

Ti voglio così come sei (di Giuseppe Argenziano)

Se tu fossi

quella che io direi dovresti essere

non saresti

quella che tu sei.

Mi fai soffrire

mi fai star male

mi fai impazzire,

ma cosa sarei io

se tu non fossi

quella che tu sei.

Che vita sarebbe la mia

che angoscia sarebbe per me.

Che cosa io farei

se tu non fossi

quella che tu sei.

Ti amo

e sei la sola.

Ti adoro.

Ti voglio per me.

Sei gioia

vita

chimera.

Sei

quella che tu sei

e sei la mia unica donna.