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Ciambella e uovo benedetto per la colazione di Pasqua

Come ogni sabato pomeriggio chiamo mia sorella Teresa, a Gatteo a Mare, per avvisarla che sto partendo da Viserba per andarla a trovare. Oggi è arrivata al telefono un po’ trafelata.
“Non ti ho risposto subito – ha detto – perché sono impegnata in cucina. Sto facendo la ciambella per domani mattina.”
Appena arrivata a casa sua, mi ha accolto il profumo inconfondibile proveniente dal forno e una bella stesa di ciambelle, già pronte, decorate con le codette colorate. In un cestino lì accanto, avvolte in un tovagliolino ricamato, alcune uova sode già benedette in chiesa.
Ciambella e uova benedette: gli ingredienti della tradizionale colazione nel mattino del giorno di Pasqua. Domani, grazie alla disponibilità di Teresa, anch’io ripeterò questo rito del tutto romagnolo.

Per chi volesse approfondire l’argomento, ecco qui di seguito quanto scrive Michele Marziani, giornalista e scrittore esperto in gastronomia del territorio, nel libro “La cucina riminese tra terra e mare” (Panozzo Editore Rimini, 2005).
Buon appetito e… buona Pasqua da Cristella

Ciambella, pagnotta pasquale e uovo sodo: la tradizionale colazione romagnola nel giorno di Pasqua

Scrive Marziani:
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Focarina, fogheraccia, fugaràza: sempre fuoco (e festa) è…

In tutta la Romagna, e Rimini non fa eccezione, in questo periodo cominciano a vedersi, qua e là, dei mucchi di sterpi e di legna che crescono in altezza di giorno in giorno.

Non solo in aperta campagna: basta uno spiazzo libero dai condomini, una piazza o un cortile di parrocchia. Va di moda, ma non era così fino a qualche anno fa, anche la spiaggia.

Cosa succede?

Come in un film di Fellini si sta preparando il set per una rappresentazione che si ripete da tempo immemorabile: la fogheraccia (o focheraccia) di san Giuseppe, in dialetto riminese “fugaràza”.

La sera del 18 marzo, appena dopo il tramonto, si comincia a sentire odor di fumo e a vedere numerosi fuochi che si accendono, non necessariamente con tempi sincronizzati: c’è chi consuma il rito appena dopo la cena, chi invece ne approfitta per trasformare il tutto in una sorta di barbecue alla romagnola, con salsicce, costine di maiale e l’immancabile sangiovese.

Qui a Viserba – e precisamente proprio davanti alla mia finestra, nello spazio ancora libero di cui scrivevo in un precedente post – viene allestita una fogheraccia che è diventata ormai storica: quella di Bruschi, che già due anni fa era data per spacciata per l’imminente costruzione di qualche palazzo (tanto per cambiare…).

L’annunciato “spegnimento”, però, è stato solo rimandato, visto che quest’anno si accenderà per davvero l’ultima “fogheraccia della falesia”: i lavori della nuova rotonda continuano infatti a pieno ritmo e il mucchio di legna da far ardere è lì, pronto. Più alto degli altri anni, a ricordare che questa volta è formato anche dai tronchi degli alberi che sono stati abbattuti per far posto alla strada e alle nuove costruzioni.

Comunque, la fugaràza è sempre un momento di gazòja (gioia e festa insieme) per grandi e per bambini.

Ricordo quando, a Gatteo a Mare, organizzati in una banda chiassosa andavamo in giro a raccogliere la legna con un carrettino, sotto la regia della “nonna” (quarant’anni fa la Pierina d’e’ Zaqual aveva poco più della mia età di oggi, ma era già “la nonna”, col fazzoletto in testa e la parananza sempre legata in vita).

Da quelle parti per indicare il falò di san Giuseppe si dice fugaréina (focarina), ma la sostanza non cambia: l’agitazione della preparazione, che durava settimane; l’emozione dell’accensione; la gioia nei volti illuminati e scaldati dal fuoco; la malinconia delle ultime scintille che sfuggono ai carboni che rimangono… E la mamma ci richiamava in casa, col fumo che rimaneva ad impregnare l’aria fino al giorno dopo, e anche oltre.

A quei tempi (quarant’anni fa) i fratelli Enrico e Ubaldo Branzanti, miei vicini di casa, scrissero una canzoncina che una mia amichetta cantò al “Festival di casa nostra” (io ero nel coro!).

Ricordo ancora il ritornello gioioso: “La focarina, la focarina, quanti musetti intorno a quel fuoco, coi goccioloni giù per il naso. La focarina, la focarina…”

Chi allora si troverà da queste parti per la prima volta proprio la sera del 18 marzo e sentirà rumore di botti e odore di fumo non abbia paura: non è scoppiata la guerra.

E’ “soltanto” una delle feste più antiche e sentite della Romagna.

La fugarena in piazza, a Castrocaro Terme FC

Fra le tante descrizioni dei falò di san Giuseppe, trascrivo qui di seguito quella del pluri-citato Gianni Quondamatteo (dal Dizionario Romagnolo Ragionato).

Fugaràza – gran fuoco, falò; focarone.

Alla vigilia di S. Giuseppe, la sera del 18 marzo (un po’ meno il 24 dello stesso mese, alla vigilia della Madonna), si accendono fuochi in tutta la Romagna; e si spara, e si fanno botti di ogni genere. L’ardore, da ragazzi, era tale, che qualche volta ci si dava al furto della legna, al saccheggio e perfino all’abbattimento di alberi. Dopo la fugaràza, dato fondo a tutta la legna, per la Madonna c’era la fugaréina.

G. Pecci: azzandrém anca st’ann al fugarein (accenderemo anche quest’anno le focarine).

Poiché di donna di scarso seno si dice che il falegname S. Giuseppe vi è passato con la pialla, ingraziarsi il santo vuol dire allontanare questo pericolo; di qui il curioso detto la fugaraza grosa la fa crès al tèti (la fogheraccia grossa fa crescere le tette); ergo, reca legna abbondante al falò.

In alcuni posti si dice (alla ragazza con poco seno): t’an è fat i fug ad san Jusèf, e san jusèf u t’a pas la piala (non hai fatto i fuochi a san Giuseppe, e san Giuseppe ti è passato sopra con la pialla).

Al fugarèn ad san Jusèf resistono in tutta la Romagna. Esse costituiscono certo un avanzo di costumi pagani e ne’ è da dimenticare che Marte era, nei tempi primitivi di Roma, il dio della campagna e della vegetazione. Pratella ritiene che con le “focarine” si volesse salutare il Dio Sole, identico, in tempi remoti, al dio Mavors (Marte), dio dell’anno (che cominciava appunto con il mese di marzo) e della primavera. Gaspare Bagli ricorda un bando di Carlo Malatesta, del 1379, che proibiva di festeggiare marzo con fuochi, perché risentivano degli usi pagani.

Un particolare significato, lo ricorda Ovidio, era il salto del falò da parte dei pastori, quando si celebravano in aprile le feste Palilie. E ancora oggi i giovani si cimentano saltando oltre le fiamme. All’inizio, invece, si forma un cerchio di bimbi, con le mani a catena, e una cantilena sale al cielo, facendo pensare ad una misteriosa invocazione alla luna: “Lòna, lòna ad mèrz, una spiga faza un bérc, un bérc e una barcheta, una gheba s’uva sèca, luna, luna di marzo, una spica produca una bica, una bica (mucchio di covoni di grano) e una bichetta, e una cesta d’uva secca.

Garbinitudine

“Andiamo dove ci porta il garbino”, scriveva Silvano Cardellini in “Una botta d’orgoglio”.

Era il suo modo per descrivere il carattere dei riminesi, mutevole come il vento che contraddistingue questa prima giornata di marzo.

Da Cesenatico mio fratello Domenico, marinaio diportista, mi conferma che trattasi di garbino-libeccio. Qui a Viserba Raimondo, lampedusano trapiantato in Romagna, guarda fuori e sentenzia: “Non è proprio garbino. Arriva da là, quindi è una via di mezzo fra scirocco e libeccio.”

“Là”, dalla prospettiva di casa nostra, è l’entroterra riminese verso il Monte Titano (o Repubblica di San Marino).

Rosa dei venti. Clicca per ingrandire

Avere il garbino”, da queste parti, è segno di irrequietezza. Un nervosismo generale che spesso si legge sui volti, che si sente in strada nel traffico un po’ più caotico del solito o che giustifica atteggiamenti strani e scontrosi.

Quante volte, dopo una risposta un po’ scortese di un interlocutore, magari nel mio ufficio o in un negozio o al supermercato, minimizzo pensando: “Oz e’ tira pròpri e’ garbéin…” (Oggi, tira proprio il garbino…).

La descrizione più bella e completa della garbinitudine è di Gianni Quondamatteo. Cito direttamente dal suo Dizionario Romagnolo Ragionato.

Garbéin – garbino, libeccio.

E poiché proviene da sud-ovest, questo termine scaturisce dall’arabo garbì, ovvero occidentale, o garb, occidente. Tale autorevole origine si riverbera altresì nello spagnolo, nel provenzale e nel dalmatico (garbin).

E’ un vento caldo, afoso, che soffia a raffiche, quasi sempre precursore di pioggia.

Garbinàz, quand’è addirittura insopportabile.

E’ un vento che dà anche sui nervi, che il meteoropatico preavverte con una diffusa irrequietezza anche molte ore prima: a sént e’ garbéin (sento il garbino), si dice; e, quando soffia, a so ingarbinèd (sono ingarbinato).

L’ha e’ garbéin (ha il garbino), ha i nervi tesi.

E’ va se garbéin, di chi è di comportamento mutevole.

Fin che tira ste garbéin… (fin che tira questo garbino), fin che le cose stan così…

Poiché il garbino è vento mutevolissimo, incostante, così si dice di persona che cambi dea, di voltagabbana: t’è la faza cume e’ garbéin (hai la faccia come il garbino) o t’fé tòtt al fazi cume e’ garbéin (fai tutte le facce come il garbino).

In campagna: se garbéin e’ bòl e’ véin (col garbino bolle il vino) e con questo vento non si travasa il vino e non si “smette” il baghino (il maiale).

Foriero, abbiamo detto, di tempo cattivo: siròc e’ garbéin, dicono infatti i marinai. D’estate, soprattutto, il garbino precede lo scirocco e l’immancabile pioggia. Di qui il modo di dire campagnolo: e’ garbéin en mèt sò e’ lèt a maréina (il garbino non mette su il letto in mare), non si ferma, cioè, ma ritorna indietro sotto forma d’altro vento e provoca guai; si dice anche adès e’ va zò e’ garbéin, l’è quand che torna indré! (adesso va giù il garbino, è quando torna indietro!).

Sempre in campagna, per chi ha i capelli in disordine, o gli abiti, si dice: l’è rufid cum per e’ garbéin (è arruffato che mi sembra il garbino).

Garbéin s-cèt (garbino schietto) o garbéin frèid (garbino “marcio”), quando non vi sono dubbi di sorta.

Finita la citazione di Quondamatteo, chiedo ora scusa ai lettori se abbasso il tono filosofico-antropologico di questo post e lo riporto alla pragmaticità tipica di una arzdòra romagnola quale sono: un aspetto positivo delle giornate di garbino, specialmente se capitano di sabato e di domenica (quando le donne che durante la settimana sono impegnate anche in lavori fuori casa si dedicano alle faccende casalinghe) è la possibilità di asciugare velocemente il bucato steso all’aperto.

Decisamente meglio di qualsiasi asciugatrice industriale…

Si alza la nebbia e qualcosa è cambiato…

U j è na nèbia ch’l’as taja s’e’ curtèl (c’è una nebbia che si taglia col coltello).

Quante volte ho sentito questa frase, in casa mia o in giro per la Romagna! La nebbia di questi ultimi giorni, però, era da un pezzo che non la vedevamo. Quasi quasi ce n’eravamo dimenticati.

Ricordate la scena di Amarcord, col nonno di Titta che si perde nella nebbia e non s’accorge di trovarsi invece proprio di fronte a casa?

Ecco, in questi giorni Rimini è così come l’ha fotografata Fellini in quel quadro ovattato: colori sfumati, movimenti lenti, suoni lontani.

Da casa mia, specialmente verso sera e di notte, con la nebbia si sente il segnale del faro. Un fischio quasi familiare, che arriva di tanto in tanto. Questo che sento oggi proviene dal porto di Rimini. Del tutto simile a quello che sentivo nelle mie notti di ragazza, a Gatteo a Mare, proveniente però dal molo di Cesenatico. Sono passati venticinque anni, ho cambiato provincia di residenza, ma sempre “marinara” rimango.

Sabato mattina la coltre nebbiosa ha contribuito a coprire, ma solo per un paio d’ore, il disastro che stava avvenendo di fronte alla mia finestra e che sta cambiando la fisionomia di Viserba.

Non si vedeva nulla, ma si sentiva il rumore delle ruspe che sradicavano gli alberi e i rovi della vasta area incolta situata a monte della via Sacramora (la cosiddetta “falesia”), di fronte al polo scolastico.

A dire il vero la sorta di giungla che si era creata in decenni di abbandono non era il massimo: fino ad una ventina d’anni fa si riusciva ad inoltrarsi nei piccoli sentieri, fra i rovi, per raggiungere un gruppo di ciliegi, ormai inselvatichiti, che comunque regalavano i loro frutti a chiunque avesse il coraggio di arrampicarsi. Dalle fotografie prese dal satellite si riconoscono anche le stradine tracciate dai giovani che venivano a divertirsi con le loro moto da cross. E qui ricordo perfettamente l’epoca – quindici/venti anni fa – perché questi matti arrivavano a sgassare al massimo dei decibel proprio nella curva sotto alla mia camera da letto. Puntuali come orologi, svizzeri: all’ora del sonnellino delle mie bimbe e della sottoscritta.

Quindi ho pochi rimpianti sia per la giungla, sia per le moto. E poi, a dir la verità, sono sempre stata terrorizzata dall’idea delle bisce e dei topi che immaginavo nascondersi fra le erbacce e i rovi che vedevo di là dal mio cortile.

Però i rumori secchi e sinistri delle piante spezzate, che mi giungevano dalla nebbia, sabato mattina m’hanno fatto rabbrividire. Una strana sensazione, pensando “fa più rumore un albero che cade, di una foresta che cresce”.

Verso mezzogiorno la nebbia s’è poi alzata, come un sipario. E la prospettiva che mi era familiare da sempre era totalmente cambiata. i campi puliti, letteralmente rasati, fanno ora allargare lo sguardo fino alle case vicine e alla strada, prima nascoste.

Mi dovrò abituare: i lavori per la nuova strada e la grande rotonda sono già in fase avanzata e stanno procedendo velocemente.

Mi sa tanto che fra un po’, col traffico che arriverà, rimpiangerò i ragazzini che venivano a fare motocross sotto alle mie finestre…

Non rimpiangerò di certo la giungla, anche se una domanda mi sorge spontanea: ma con tutto questo sbancamento di terra e la distruzione delle piante, dove si saranno rifugiate le bisce e i topi?

Brrr… io in cantina mica ci torno!

Cercare (e trovare) un lavoro a Rimini e dintorni

Oggi parliamo di lavoro (senza sudare troppo, però!).

Come ho già scritto in più occasioni il primo lavoro di Cristella – quello che produce uno stipendio, per intenderci – è al Centro per l’impiego di Rimini. La scrittura e il giornalismo sono un innamoramento, un hobby: belli e appassionanti finché rimarranno tali.

L’esperienza quasi trentennale a contatto con migliaia e migliaia di persone alla ricerca di un lavoro mi porta ad avere una certa dimestichezza con l’ambiente e le relative dinamiche. Ormai riesco ad anticipare la domanda di chi si presenta al mio sportello, ad esempio, riconoscendo la tipologia della persona al primo sguardo o alle prime parole. Magari dall’accento o dal tipo di approccio.

Soprattutto in questo periodo dell’anno si ripete una scena già vista tante volte: tantissimi “cercatori”  (non solo giovani) che ho battezzato “i disoccupati con lo zainetto“. Giungono a Rimini, armi e bagagli al seguito, attirati dalla possibilità di trovare occupazione con facilità negli alberghi e nelle altre strutture turistiche. Molti hanno effettivamente delle potenzialità, magari perché con buone referenze e professionalità. Altri vagano proprio allo sbaraglio e rischiano di rimanere delusi.

Questi ultimi si riconoscono da quel troppo generico “cerco qualsiasi lavoro”, sottolineato dal pretenzioso “so far tutto” o dal chiarificatore “mi adatto, basta che ci sia anche l’alloggio gratis”.

Purtroppo non sono più i tempi, neppure in Riviera, di quando i posti disponibili superavano l’offerta. Oggi i disoccupati sono sempre più numerosi e, dall’altra parte, le strutture turistiche sono legate a periodi di attività più frammentati rispetto al passato, quando “la stagione” durava da Pasqua a ottobre.

Ecco allora i miei consigli.

Innanzitutto informarsi: in quasi tutte le città, spesso anche nei paesi più piccoli, esistono degli uffici che possono aiutare chi cerca un lavoro ed è disponibile a spostarsi. Di solito si chiamano “Informagiovani” (ma vengono utilizzati da persone di ogni età) e sono presso i Comuni. Nell’era di Internet innumerevoli offerte, non solo in Italia, sono a portata di clic. Basta trovare un Pc collegato alla rete.
Per quanto riguarda la nostra zona, ad esempio, tutte le offerte di lavoro sono pubblicate nel sito internet del Centro per l’impiego (www.riminimpiego.it), nella sezione Cercoffro, costantemente aggiornata.

Per il lavoro estivo nel settore turistico alberghiero, poi, da anni è attiva una banca-dati regionale, chiamata Autocandidatura, dove si possono visualizzare le offerte dei datori di lavoro di tutta la riviera romagnola: Lidi ferraresi, Lidi ravennati, Cervia-Milano Marittima, Cesenatico, Gatteo a Mare, Savignano Mare, San Mauro Mare, Bellaria-Igea Marina, Rimini, Riccione, Cattolica, Misano Adriatico.

Collegandosi al relativo link si possono selezionare le proposte in base alla qualifica, alla zona e ad altre caratteristiche. Io consiglio di guardarle tutte, le offerte, di non limitarsi a cercare, per esempio, solo i posti con alloggio a Rimini: tenete presente che Bellaria o Cesenatico sono vicinissime e in estate tutta la Riviera è simile a un’unica grande metropoli balneare.

Sempre nel sito dell’Autocandidatura, ciascun lavoratore può segnalare la propria disponibilità immettendo i dati personali e professionali. I Centri per l’impiego provvederanno a trasmettere i nominativi dei disponibili a tutti gli albergatori o imprenditori che ne faranno richiesta.

Vi assicuro che questo sistema funziona. E, particolare da non sottovalutare, è totalmente gratuito. Sia per chi cerca, sia per chi offre.

L’altro canale di ricerca/offerta molto usato a Rimini e dintorni è il giornale di annunci Il Fo. Anche questo consultabile on-line (all’indirizzo www.ilfoannunci.it).

Bene, mi pare di aver scritto un post professionale. Sperando che sia utile a qualche lettore, nello spirito delle linee-guida del mio blog: territorialità, quotidianità, interessi personali.

Sì, perché… “il lavoro è il mio lavoro“.