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Che Natale sarebbe senza cappelletti?

Mi siedo al computer solo ora, dopo un pomeriggio in cucina.
Il rito dei cappelletti, quest’anno, a casa mia l’abbiamo anticipato di un giorno. Non la vigilia di Natale, come si fa di solito, ma oggi, usufruendo del congelatore che verrà riaperto il giorno di Natale per gettare nel brodo bollente il nostro lavoro odierno.
Nostro”, sì, perché per tradizione si tratta di un lavoro collettivo: la suocera, la nuora (cioè la sottoscritta) e la nipote mezzo-romana che ha nostalgie culinarie romagnole. Un pomeriggio intero a tirare la sfoglia, tagliarla in quadratini, riempirla col “composto”, richiuderla e formare file ordinate di cappelletti sui vassoi infarinati.

Calcolandone una ventina a testa e tenendo presente che a tavola saremo undici, abbiamo preparato la bellezza di 300 cappelletti… Si sa come vanno queste cose: meglio stare abbondanti!

E’ tradizione, in Romagna, che la vigilia di Natale la famiglia si ritrovi per preparare questo tipo di pasta. Ognuno fa qualcosa. E, come succede sempre con le preparazioni tipiche, le ricette, seppur simili, sono differenti da famiglia in famiglia. Quelli che abbiamo preparati oggi, ad esempio, sono i cappelletti della Romagna del sud, col ripieno di carne macinata e formaggio grattugiato, più somiglianti ai tortellini bolognesi.

Quelli della mia infanzia, invece, sono più tipici della zona di Cesena e del Rubicone: più morbidi, col ripieno di formaggi, a cui si aggiunge solo una piccola parte di carne (solitamente petto di cappone). Sono i cappelletti della mia mamma, che li faceva seguendo la ricetta di Pellegrino Artusi.

Il mio “Buon Natale” ai lettori passa quindi attraverso questo piatto della tradizione, così come lo racconta il gastronomo di Forlimpopoli.
Peccato che attraverso Internet non si possano ancora inviare profumi e sapori. Chissà, forse in un futuro neanche tanto lontano questo sarà possibile… Intanto, godetevi la lettura in “stile Artusi”.
cappelletti
Da “La Scienza in Cucina e l’Arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi

Ricetta n. 7 – CAPPELLETTI ALL’USO DI ROMAGNA
Sono così chiamati per la loro forma a cappello. Ecco il modo più semplice di farli onde riescano meno gravi allo stomaco.
Ricotta, oppure metà ricotta e metà cacio raviggiolo, grammi 180.
Mezzo petto di cappone cotto nel burro, condito con sale e pepe, e tritato fine fine colla lunetta.
Parmigiano grattato, grammi 30.
Uova, uno intero e un rosso.
Odore di noce moscata, poche spezie, scorza di limone a chi piace.
Un pizzico di sale.
Assaggiate il composto per poterlo al caso correggere, perché gl’ingredienti non corrispondono sempre a un modo. Mancando il petto di cappone, supplite con grammi 100 di magro di maiale nella lombata, cotto e condizionato nella stessa maniera.
Se la ricotta o il raviggiolo fossero troppo morbidi, lasciate addietro la chiara d’uovo oppure aggiungete un altro rosso se il composto riescisse troppo sodo. Per chiuderlo fate una sfoglia piuttosto tenera di farina spenta con sole uova servendovi anche di qualche chiara rimasta, e tagliatela con un disco rotondo della grandezza come quello segnato. Ponete il composto in mezzo ai dischi e piegateli in due formando così una mezza luna; poi prendete le due estremità della medesima, riunitele insieme ed avrete il cappelletto compito.
Se la sfoglia vi si risecca fra mano, bagnate, con un dito intinto nell’acqua, gli orli dei dischi. Questa minestra per rendersi più grata al gusto richiede il brodo di cappone; di quel rimminchionito animale che per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini. Cuocete dunque i cappelletti nel suo brodo come si usa in Romagna, ove trovereste nel citato giorno degli eroi che si vantano di averne mangiati cento; ma c’è il caso però di crepare, come avvenne ad un mio conoscente. A un mangiatore discreto bastano due dozzine.

Pellegrino Artusi, maestro di cucina delle brave arzdore

Mentre i giornali e le Tv parlano delle eredità miliardarie (con debiti inclusi) di cantanti famosi, mi cade l’occhio sulla scatola dei ricordi che ho portato a casa cinque mesi fa. La mia parte di eredità, di sicuro molto più preziosa di quella dei Vip.
Fra vecchie fotografie, cartoline e centrini fatti all’uncinetto, c’è un libro dalle pagine ingiallite.
La copertina consunta dall’uso è stata ricoperta con una carta rossa dai ghirigori azzurri e lilla. Carta leggermente cerata. Ritagliata su misura e fermata agli angoli con puntine da disegno veniva usata per foderare i cassetti della cucina dopo la pulizia stagionale.
La prima pagina bianca del volume porta in alto il nome della precedente proprietaria.

Scritto a matita, con grafia elementare e limpida: Pierina Cenni in Muccioli.
La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Manuale pratico per le famiglie compilato da Pellegrino Artusi (edizioni Bemporad Marzotto Firenze, 1963) è l’unico libro che ricordo di aver visto in casa mia quand’ero bambina.
Tenuto come oggetto prezioso e consultato spesso da mia madre, che come tante altre romagnole nell’epoca del boom economico, dalla campagna “scese a Marina” insieme alla famiglia.
Da brava arzdora a cuoca per i turisti.
Un passaggio piuttosto facile: invece che per la famiglia patriarcale con numeri che superavano la ventina, Pierina iniziò a spignattare negli alberghi e nelle pensioni di Cesenatico, Valverde, Gatteo a Mare.

Per quasi trent’anni e senza demerito. Anzi, oserei dire con onore.
L’Artusi era la Bibbia della mamma.

Ci sono ancora, fra le pagine, dei bigliettini con appunti e note.
Li tocco e li sfioro, attenta a non cambiar loro di posto.
Se lei ne aveva messo uno fra la pagina 144 e la 145 un motivo c’era…
Sì, certo, ne sento ancora il profumo! Riconosco la ricetta numero 180, le semplici e morbide “Frittelle di semolino”.
“Ai tedeschi dell’hotel Boston – diceva la mamma – piacevano un sacco. Venivano in cucina a farmi i complimenti! Sehr gut, Frau Pierina, wunderbar!”
E allora, visto che non è neanche troppo lunga, la copio pari-pari dall’Artusi. E domani la preparo.

Wunderbar, Frau Cristella!


Frittelle di semolino
Latte, mezzo litro.
Semolino, grammi 130.
Burro, quanto una noce.
Rhum, una cucchiaiata,
Odore di scorza di limone.
Sale, quanto basta.
Uova, N. 3.
Cuocete il semolino nel latte, salatelo quando è cotto e, diaccio che sia, aggiungete le uova e il rhum. Friggetele nell’olio e nel lardo e mandatele in tavola spolverizzate di zucchero a velo.

Questa quantità può bastare per quattro o cinque persone.

Ma tu, sogni in italiano o in dialetto?

C’è un buon motivo, se già dall’inizio nel mio sito ho inserito le sezioni Dialetto e Tradizioni.
Sono nata in campagna, a Sala di Cesenatico. Per i primi tre/quattro anni della mia vita ho sentito parlare unicamente il dialetto e di conseguenza ho balbettato le prime parole in questa lingua: sì, sono nata dialettofona.
Poi, col trasferimento al mare (erano i tempi del boom economico, primi anni Sessanta, quando con qualche cambiale ci si poteva lanciare nell’avventura ed iniziare a tirar su una pensioncina) ai miei genitori venne detto che non andava proprio bene che una bimbetta parlasse in dialetto: bisognava iniziare ad insegnarle l’italiano.

Immagino la loro fatica. In pratica, in casa si incominciarono ad usare due lingue: l’italiano con me – la piccola da affrancare dalla campagna – e il dialetto con gli altri figli.
Teresa, Tiziana e Domenico, di qualche anno più grandi di me, sono stati dunque salvati dal dato anagrafico. Un’abitudine, quella della doppia lingua, mantenuta poi per tutta la loro vita. Che fortuna: una mamma e un babbo poliglotti (e bravi)!
Le mie sorelle e mio fratello si sono sempre rivolti loro in dialetto, dando del “voi”, perché così si usava.
Mà, av voj bén”: sembra strano, vero, che un uomo di quasi sessant’anni si rivolga con questa frase (“mamma vi voglio bene”) alla vecchietta ormai sfinita stesa nel letto d’ospedale? Non era un “voi” distante. Era caldo, abbracciava.
E valeva di sicuro molto più di quel freddo “tu”, che sarebbe stato in una lingua straniera, non loro.
Quando mi imbatto in una canzone, un testo teatrale o, semplicemente, un dialogo privato nella lingua dei miei genitori, sento qualcosa che si muove dentro, che si apre. Una sensazione simile a quella che provo quando ascolto certe composizioni di Mozart, non so perché…
Il dialetto, lingua orale, muore.
Muore con i vecchi.
Muore nel momento in cui se ne vanno coloro che “sognano in dialetto” (a dirla con Gianfranco Miro Gori, il sindaco-poeta di San Mauro Pascoli).
E allora, cosa si può fare?
Qualcosa in provincia di Rimini si muove: nei giorni scorsi, ad esempio, è stato presentato il progetto “In viaggio con il dialetto!”. Si tratta di itinerari didattici per i ragazzi delle scuole della Valconca e della Valmarecchia, coordinati e condotti da Gabriele Bianchini e Vincenzo Sanchini.
Iniziativa encomiabile, anche se la sempre più alta presenza di ragazzi stranieri nelle nostre aule mi fa pensare che sia già troppo tardi, che progetti di questo tipo si dovevano fare dieci-quindici anni fa.
Anche il poeta milanese Franco Loi esprime i suoi dubbi sul dialetto nelle scuole: in proposito vi invito a leggere un suo interessante articolo (pubblicato su Il Sole 24 Ore), che ho trascritto qui.

E adès, av salut!


Ah, e se proprio volete sapere in quali panni mi sento più a mio agio quand a scor in dialèt, guardate qui

[tags] dialetto, tradizioni[/tags]

“Sorellanza” è anche tramandarsi una ricetta di stagione

Fino a quattro mesi fa quando avevo bisogno di qualche consiglio (o magari soltanto di una piccola consolazione), facevo un numero di telefono di Gatteo a Mare. E’ il luogo dove sono cresciuta, venti chilometri a nord da qui, appena al di là dello storico fiume Rubicone (il grande passaggio, in senso contrario a quanto fatto da Cesare, io l’ho vissuto nel 1983, col matrimonio).

Immancabilmente, a quel numero rispondeva la dolce voce della mamma.

“T’é voja ad tètta?” (hai voglia di tetta?), scherzava, immaginando che una richiesta del tipo “voglio fare la seppia con piselli, mà, cosa devo mettere giù prima, la seppia o i piselli?”, in realtà significasse “mamma, oggi sono un po’ in crisi e avevo voglia di sentirti”.

Ora quel telefono suona a vuoto.

Per fortuna, però, non sono figlia unica e la mamma ha lasciato in eredità i suoi tanti saperi alle mie due sorelle e a mio fratello, oltre che a me.

Teresa è la maggiore, ci separano dodici anni. Quand’ero bambina è stata una vice-mamma. Ora è il telefono di Teresa a squillare più spesso. Tutti la chiamiamo, quasi quotidianamente, per sapere… come si cucina la seppia con i piselli.

L’ultima volta che sono andata a trovarla mi ha regalato un barattolo di delizie: i fichi sciroppati come li faceva la mamma.

Ecco la ricetta, giusta per il mese che inizia oggi.

“Cogli l’attimo fuggente – direbbe qualcuno – E, per non perderne il sapore, conservane un po’ per i mesi più freddi”.

Magari si potesse fare così con tutte le cose buone (e belle)!

Fichi sciroppati di Teresa
Ingredienti
4 chili di fichi “tosti”, appena colti, col loro picciolo
1 chilo di zucchero
la buccia di un limone
Preparazione
In un pentolone antiaderente (vanno bene quelli di acciaio col fondo grosso) si mettono quattro chili di fichi interi col loro picciolo, precedentemente lavati e scolati, un chilo di zucchero e la buccia di un limone (la parte gialla) tagliata a striscioline o dadini.
Si lascia sul fuoco finché lo zucchero si è trasformato in sciroppo e i fichi cambiano colore e diventano marroncini.
Si mettono ancora caldi nei barattoli di vetro puliti, si chiudono e si lasciano raffreddare lentamente (anche due giorni) avvolti in panni o coperte.

Si mangiano anche dopo mesi.

A me piacciono insieme ai formaggi o sopra le cantarelle.

Buoni anche sulla piada calda, magari distesi sopra ad un leggero strato di stracchino fresco.

Io ho già l’acquolina in bocca? E voi?

Romagna mia, casetta mia… Il liscio di Casadei

Mi comunica Riccarda Casadei, figlia di Secondo Casadei, che domani 5 agosto alle ore 23,30, su Raiuno andrà in onda uno Speciale Tg1 dal titolo Il popolo del liscio. Un reportage sul mondo del ballo in Romagna, delle orchestre e di tutta la gente che ama questo genere.
Riccarda è una signora amabile, che ho conosciuto di persona quando al Museo della Città di Rimini venne celebrato con una mostra il 50° anniversario di Romagna mia, la canzone che fece conoscere suo padre come Il re del liscio. Ci siamo poi incontrate ancora. L’ultima volta a San Mauro Pascoli per la presentazione del libro di Franca Fabbri, di cui ho già scritto.
Oltre ad una sorta di sorellanza dovuta all’amore per dialetto e tradizione romagnola, che definirei “storica”, con Riccarda mi lega anche un dato “geografico”: la casa di Gatteo a Mare dove ho vissuto fino al matrimonio e dove tuttora abita la mia famiglia, è a pochi metri da quella per cui Romagna mia venne scritta.
C’è ancora: all’inizio di via Primo Maggio, nei pressi della stazione ferroviaria, la “Casetta mia” di Secondo Casadei, circondata da un parco-giardino, attira i curiosi perché all’ingresso sono riportati i primi versi della nota canzone.
Casetta mia, casetta in fiore, tu sei la stella, tu sei l’amore…” Sì, il primo testo presentato dal babbone di Riccarda non era dedicato ad una regione, ma soltanto al piccolo rifugio vacanziero che la famiglia Casadei aveva a Gatteo a Mare, frazione consorella di Sant’Angelo, il paese d’origine di Secondo.
Il responsabile della casa discografica a cui Casadei si presentò, suggerì il nuovo titolo. Per ragioni di marketing, diremmo oggi. Niente di più azzeccato, visto che Romagna mia risulta essere fra le quattro canzoni più suonate nel mondo!

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