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Nonnitudine acuta e persistente

Ci sono oggetti che…

Non si possono pagare, perché nessuno avrebbe denaro sufficiente.

Si creano con mani e testa, ma soprattutto con cuore.

Richiedono tempo su tempo, col pensiero sempre rivolto a qualcuno.

La nonnitudine è anche questo: andare su Goggle Street per fotografare la facciata dell’asilo e i giochi del cortile,  munirsi di uncinetto, ago e fili colorati presi dal cestone degli avanzi, raccogliendo anche ritagli di stoffa, nastri e cordoncini…

E poi, ricordando che, dopo tutto, la nonna è anche un po’ scrittrice e favolista, buttar giù una storiella. Con qualche rima, che così è ancor più bella, da regalare al nipotino, ai compagni di asilo e alle maestre.

Fatto! Perché, appunto, la nonnitudine vuole il suo sfogo…

Tempo impiegato: circa due settimane di pomeriggi e serate distolti dalla tv e dal pc (sai, che perdita!).

Costo di produzione: un paio di euro per il feltro giallo. Possibile prezzo di vendita: non calcolabile, come detto sopra. Effettivo prezzo di vendita: “agratis”.

E, magari, come compenso, solo un bacino e un battito di mani… che un’altra storia, la racconterò domani.

Ecco la storia di Bruchino Brucò e Farfalla Farfallina  Continua a leggere

Passatelli: profumo della memoria

Il ferro dei passatelli

 

 

 

 

 

 

 

 

“Meraviglia da non perdere – scrive Michele Marziani nel suo libro “La cucina riminese tra terra e mare” (Panozzo Editore Rimini 2005) – sono i passatelli, sorta di meravigliosi vermetti a base di pangrattato, uova, parmigiano, noce moscata e scorzetta di limone. Una fantastica minestra dei giorni di festa – si mangiavano tradizionalmente a Pasqua nel riminese e nel giorno dell’Epifania in Valconca – da gustare rigorosamente in brodo. Stupendi anche col brodo di pesce fatto con gli umili paganelli dell’Adriatico. Oggi sono numerose le versioni asciutte che si incontrano nella ristorazione. (…)
Chi ha avuto la fortuna di essere bambino in una famiglia dove i passatelli erano di casa, la memoria la conserva nel naso, perché il passatello è sentore di buono, di formaggio, di noce moscata, di limone che vaga nell’aria mentre bolle il brodo. Ma quello che ancor più ci colpiva – e colpisce – l’immaginario infantile è il ferro per passatelli, una sorta di schiumarola con i manici che serve per realizzare i sottili vermicelli d’impasto profumato. Un oggetto oscuro, misterioso, del quale è difficile comprendere l’uso se non vedendolo utilizzare. E le cucine, un tempo, si dividevano tra quelle dotate dell’attrezzo in questione e quelle di chi, tapino, s’arrangiava con lo schiacciapatate, fino ad almeno un decennio fa in dotazione in tutte le famiglie. Oggi il ferro per passatelli fa parte degli oggetti della memoria, del modernariato rurale. Un po’ come le teglie d’argilla per cuocere la piada.”

In effetti, anch’io sono una di quelle arzdore tapine che non sanno usare il vecchio ferro (che comunque è appeso in bella mostra alla parete della cucina) e che si arrangiano col passapatate.

La ricetta più usata, a casa mia, è col brodo di cappone o gallina, come da stretta tradizione, ma qualche volta ho provato, con successo, il brodo di pesce.

Prima di trascrivere la ricetta, vi segnalo un video di Youtube dove potete ammirare la vera “arte romagnola del passatello” così come la propone un albergo di Riccione.

Buon appetito!

Passatelli romagnoli

Ingredienti

  • 125 grammi di pane grattugiato (di tipo comune)
  • 1 cucchiaio di farina
  • scorza grattugiata di mezzo limone
  • 200 grammi di Parmigiano Reggiano grattugiato
  • un tuorlo d’uovo
  • due uova intere
  • un pizzico di noce moscata grattugiata
  • un pizzico di sale

Preparazione
Si mescolano tutti gli ingredienti fino ad ottenere una palla omogenea e compatta. La si lascia riposare anche un’oretta. Quando il brodo bolle, con l’apposito attrezzo di formano i passatelli, che vanno fatti cadere direttamente nella pentola.
Sono pronti quando vengono a galla.
Ottimi anche riscaldati, il giorno dopo.

Passeggiate viserbesi. Dalla spiaggia al Lago Riviera percorrendo la Fossa dei Mulini

Torna il sole e la voglia di passeggiate.

La fortuna di abitare a Viserba offre percorsi decisamente interessanti, che sarebbero da proporre anche ai tanti turisti che – peccato per loro! – vedono solo spiaggia, ombrelloni e gelati.

Ecco la mia proposta di itinerario: porticciolo – ex lavatoio – vecchio mulino – ex corderia – lago Riviera.

Si parte dalla spiaggia, all’altezza del porticciolo, appunto. Attraversato il lungomare ci si immette sulla stradina/copertura di quella che fu la Fossa dei Mulini. Passando fra le piccole case che una volta erano abitate da pescatori e marinai, si arriva ai giardinetti sorti nel sito dell’ex lavatoio. Oltrepassata la ferrovia, il panorama cambia, e ci si trova a camminare fra campi e orti fino ai ruderi di un mulino antichissimo. Proseguendo ancora, ecco il muro di cinta dell’ex corderia, che rievoca storie di sudore e mistero… Sulla sua destra, il lago Riviera con gli appassionati di pesca e le loro canne: un luogo adatto anche per un pic nic all’ombra delle grandi piante insieme a tutta la famiglia…

Molte immagini di questi luoghi, così come diversi racconti, sono reperibili nel sito dell’associazione culturale Ippocampo Viserba, di cui mi vanto di essere fra i soci attivi, che da tre anni sta svolgendo un prezioso lavoro di recuperto della memoria del territorio.

Fra gli autori viserbesi che hanno raccontato questo luogo, mi piace citare il professor Enea Bernardi, noto pedagogista ed educatore scomparso nel 1998. Ecco qui di seguito alcune sue pagine.

Dalla Fossa dei Mulini alla Corderia

di Enea Bernardi, 1982

da “Storie su due piedi. Immagini della Memoria” (stampato in proprio, 1995)

 “C’era una volta un canale chiamato, al tempo degli avi, “La Viserba” e poi “Fossa dei Mulini”, dove nuotavano tinche, trote, anguille. Attraversava il paese, in cui era difficile mettere insieme pranzo e cena, e prima di sfociare in mare offriva un riparo alle battane e alle lance dei marinai.

Era il luogo goduto dai pescatori e dai bambini in cerca di emozioni. I ragazzi più grandi, che l’avevano già esplorato, si compiacevano dell’ammirazione di tutti e suscitavano invidia. Il gruppo al quale appartenevo stabilì allora di dare inizio alle nostre spedizioni.

Ed era diventato un rituale estivo. Si attendeva appostati che il marinaio, vinto dalla calura del pomeriggio, si appisolasse all’ombra del capanno, per sottrargli il moscone che teneva nel canale senza remi. Il vecchio, sfingeo nel volto abbrunito, quasi certamente fingeva di dormire, sapeva dei nostri armeggi ma stava al gioco. Forse la nostra intrusione maldestra portava nella sua solitudine un motivo insolito, che lo divertiva.

Partivamo, guardinghi e silenziosi, distesi sopra i galleggianti che portavano inciso il motto “Audaces Fortuna Iuvat”, con l’acqua che ci lambiva il volto mentre oltrepassavamo i ponti bassi delle strade. Si spingeva a fatica con una lunga pertica un’imbarcazione, appesantita dal legno intriso d’acqua, che a noi sembrava una corazzata. Si navigava fieri in mezzo alle lance ormeggiate sotto un tunnel di alberi, in un canale vivo con gli argini fasciati dal legno, e cantavamo a squarciagola.

Lasciavamo la “Torretta di Tognacci”, l’ultima casa dell’abitato, con la sensazione di avere superato le Colonne d’Ercole. Dopo il ponte della ferrovia risalivamo il corso della fossa in una zona deserta, nella quale l’unico fabbricato era il macello a volte risonante di muggiti che mettevano i brividi.

Più avanti la nostra audacia veniva messa a dura prova dai banchi di fango che spesso imprigionavano l’imbarcazione, in mezzo ai canneti che intricavano il passaggio e davano affanno e smarrimento perché chiudevano ogni orizzonte.

Ci inoltravamo fino al mulino dei Leli, allora con le macine ronzanti, oltre il quale sorgeva la vecchia corderia.

Si vedeva appena la punta della ciminiera e la panciuta cisterna dell’acqua ma non la fabbrica che, da quella parte, era cinta da alte mura e da una folta barriera di alberi lungo l’argine del canale fino a monte. Assomigliava ad una fortezza assediata dal verde di una foresta aggressiva in cui regnavano indisturbati bisce e grandi uccelli. Con un abbraccio aggrovigliato l’edera stringeva tronchi secolari di acacie, olmi, pioppi.

Qui, per noi, incominciava l’ignoto insondabile e finiva il viaggio breve che bruciava emozioni ed aspettative segrete. Al ritorno restava il problema di ormeggiare il moscone al suo posto. Il vecchio pescatore ci aspettava lassù in alto sulla banchina della palata, mimava un inseguimento e minacciava in tono semiserio “se vi prendo un’altra volta, vi butto in bocca ai pesci!”. E noi con aria candida rigettavamo la colpa sulla risacca che aveva sciolto l’imbarcazione e che, per non lasciarla alla deriva, eravamo saliti sopra con l’intenzione di attraccarla meglio. A questo punto il marinaio si incattiviva e urlava: “Vi cavo le budella e le metto a seccare sulla rete!”

Un po’ spaventati ci buttavamo in acqua, abbandonando il moscone, e ci mettevamo in salvo sull’altro molo.

Le esplorazioni della Fossa dei Mulini ci fecero sognare per due stagioni approdi in terre sconosciute, naufragi, attacchi di animali e di uomini selvaggi e la nostra onnipotenza paragonabile a quella degli eroi dell’Avventuroso. Alla lunga, tuttavia, con la nostra crescita, questi percorsi finirono per diventare abbastanza prevedibili; escluso il bosco della corderia che a distanza di mezzo secolo resta sempre un’incognita impraticabile a causa degli ordigni esplosivi disseminati dai tedeschi in ritirata. Crebbe con l‘età il bisogno di rinnovare sensazioni ed obiettivi.

La nostra fu l’ultima generazione che risalì il canale, perché con l’arrivo della ricchezza la Fossa dei Mulini diventò una fetida cloaca a cielo aperto con l’unica funzione di scaricare in mare la merda indigena e forestiera. Il boom turistico aveva imbastardito l’etnia e affievolito l’orgoglioso senso di appartenenza al nucleo originario; così decadde la tradizione e l’intelligente buon senso degli anziani insieme al pudore civile.

Il miraggio dell’Eldorado ebbe il sopravvento e trasformò le casette ingentilite da fregi e dimensioni umane in alti contenitori anonimi, e le viuzze luminose in asfittici budelli.

Da un’estate all’altra il canale scomparve, gli misero sopra un coperchio di cemento e divenne un corridoio fra i retro delle case. I bambini di oggi hanno già perso la memoria della Fossa dei Mulini. Passandoci sopra sentiranno soltanto una gran puzza.

 

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