Archivi categoria: Parole in Libertà

25 settembre 1944. Il pleuvait sans cesse, ce jour-là…

Sì, è vero: bisogna guardare al futuro, basta con queste storie del passato, del “si stava meglio quando si stava peggio…”

Ma certi avvenimenti del passato non vanno dimenticati. E’ dovere civile (e del cuore) volgere lo sguardo indietro, ogni tanto.

Nel 1944, in questi giorni, il territorio a Nord del fiume Marecchia era campo di battaglia. Il “fronte”, raccontato così tante volte dai miei genitori e dai loro coetanei, si fermò a lungo, anche a causa delle continue piogge che avevano reso i campi simili a pantani. Si pensi che Rimini fu liberata il 21 settembre e Gambettola, una ventina di chilometri più a nord (il luogo dove s’è svolta la tragedia della mia famiglia), soltanto il 15 ottobre. Giorni e notti di sangue, morte, distruzione, terrore…

Come si può non ricordare e rendere omaggio a tutte le innocenti e ignare vittime civili?

Lo “devo” a mia madre e a mio padre, ma anche al nonno e agli zii che non ho mai conosciuto.

Lacrime e rocca: il filo di ricordi di mamma Maria

Da “Trama e ordito, mamme che tessono la vita” – 1999.  Continua a leggere

Allegro non troppo…

Parole parole parole… dedicate da Cristella al Re Consorte e proposte in una piccola pubblicazione, nonché declamate al microfono dall’autrice, sabato 15 settembre 2012 nell’ambito di “Banchintempo“, la seconda Giornata Nazionale delle Banche del Tempo che si è tenuta a Rimini.

Il tema era: il tempo nella poesia (e, in questo caso, nella vita di tutti i giorni, da oltre trent’anni).

“Allegro non troppo”

E’ danzando col pentagramma che oggi ti penso.

E canto la nostra sinfonia

dipinta a quattro mani

con pennelli trovati per strada.

Tempi e colori

prima grigi, poi brillanti.

In crescendo.

Adagio. Piano. Andante con moto.

Con te,

dal primo abbraccio dei vent’anni

danzo la vita sul minuetto.

Con passi scanditi

da ritmo mai mesto.

Più spesso molto marcato,

se non proprio tempestoso.

Poetico con delizia,

questo chiedo per domani.

Ancor meglio se allegro (non troppo, però).

 

 

 

 

 

 

 

 

Viserba, il delitto Pascoli e Pajarèn (detto Bigecca)

“Primo verdetto di colpevolezza dopo 145 anni per l’omicidio di Ruggero Pascoli, il padre del poeta. E’ stato rovesciato il verdetto del 2001: per la prima volta il celebre omicidio Pascoli ha tre nomi: Pietro Cacciaguerra, mandante, Michele Della Rocca e Luigi Pagliarani, esecutori…”

E’ cronaca di questi giorni. Il tribunale, dopo 145 anni, ha finalmente condannato coloro che, al tempo, furono solo sospettati.

Una storia, il delitto Pascoli, che s’intreccia in varia maniera con quella di Viserba.

Il primo riferimento è su quel Pagliarani (detto “Bigecca”) indicato come uno dei due sicari. Pare fosse un avo del nostro poeta Elio Pagliarani, come raccontato da quest’ultimo nell’autobiografia (Pro-memoria a Liarosa) nel brano riportato qui sotto.

L’altro riferimento (un intreccio davvero intrigante…) è con la vicenda della famiglia della mia amica viserbese Donata Ciavatti, che nel libro “La forza del coraggio” racconta la storia del bisnonno, Pietro Giani, condannato innocente per il delitto di un fattore della tenuta dei Torlonia. Dopo aver passato 28 anni alla catena Giani fu liberato grazie alla confessione del vero colpevole. Donata ipotizza, nel suo libro, che il bisnonno fosse stato incarcerato per il delitto Pascoli (i tempi e i luoghi corrispondevano), ma non è mai riuscita ad approfondire per la sparizione di alcuni documenti giudiziari.

Ma forse il testo di Elio Pagliarani porta luce sull’ipotesi di Donata: che il delitto del fattore fosse quello di Gori, l’altra vittima citata nel Pro-memoria?

Lancio a chi di dovere (o a chi “di piacere”) la sfida di un ulteriore approfondimento di queste ricerche storiche, mentre vi lascio alla lettura del capitolo del Pro-memoria in cui Elio parla dei Pajarèn e di Mariù Pascoli.

“I tre rami dei Pagliarani. Mariù Pascoli”.

(di Elio Pagliarani, da “Pro-memoria a Liarosa, Marsilio Editore 2011).

Come mi spiegò una ventina d’anni fa il fratello di Tonino Guerra, son tre i rami dei Pagliarani diramatisi dalla zona di Sant’Arcangelo; quello di ricchi o benestanti, detto dagli amici non ricordo più se Pajarèn ‘dla Chesa o Pajarèn ‘dla Piaza, perché avevano case nella piazza principale di Sant’Arcangelo, mentre dai nemici il loro capofamiglia era detto Pajarèn e’ Brot, Pagliarani il Brutto, perché evidentemente non abbondavano in prestanza; i Pagliarani poveri erano divisi in due sottogruppi, quelli poveri e bonaccioni o lamentosi erano chiamati Pajarèn Bisugnèn (bisognevole?, bisognoso?), mentre quelli da prendere con le molle erano i Pajarèn S-ciupàz (da schioppo): dunque non soltanto mio nonno, ma anch’io sono un Pajarèn S-ciupàz; fino a vent’anni fa credevo che fosse soltanto il soprannome del nonno, invece Guerra mi spiegò bene che riguarda tutto un ramo, come ho detto. E credo proprio che fosse il ramo così tanto odiato da Mariù Pascoli.

I miei Pagliarani stavano a Casale almeno dal Seicento, mezzadri dei frati del convento (dunque dimezzati anch’essi, ma senza l’onta di un padrone diretto, fisicamente concreto e concretizzabile) e il nonno Cesare verso la fine dell’Ottocento si fece dare la sua parte di stime e uscì dalla  terra, diventando commerciante di cavalli e di bestiame in genere. Casale è a due o tre chilometri da San Mauro, e ci confina, e Mariù Pascoli come ho detto odiava talmente i Pagliarani da subire un giudizio e pagare una penale di venticinque lire per essersi rifiutati, lei, e assecondata da Giovanni, di ricevere in casa loro a Castelvecchio di Barga una domestica, Nina, fatta assumere dai loro parenti Pascoli in Romagna, appena seppero che faceva di cognome Pagliarani. E certo un Pagliarani, Luigi, detto “Bigecca” fu indiziato, con altri e poi prosciolto in istruttoria, nelle indagini sull’assassinio di Ruggero Pascoli, come racconta appunto Mariù nelle sue memorie. Me lo segnalò Mario Luzi, una volta che lo incontrai (in Georgia, Urss, nel ’66), e appena mi fu possibile cercai di documentarmi sulla faccenda. Intanto ero sicuro che se la mia famiglia fosse stata coinvolta nell’assassinio del Pascoli l’avrei saputo, se non altro perché a Viserba abitava quel chiacchierone arteriosclerotico del ferroviere in pensione Tognacci, di San Mauro, e grande amico della famiglia Pascoli (oltre che padre di quel mio professore di disegno). Lui che allevava pere così grandi (una volta – raccontava – chiamò la moglie, e quella rispose immediatamente e il suono della voce gli fece capire che era vicinissima, ma lui non riusciva a vederla: per forza, stava nascosta dietro una pera!) avrebbe gridato dietro “Assassino!” anche a me bambino, quando passavo vicino a casa sua, fossimo stati in qualche modo implicati nella faccenda (un sacerdote Tognacci battezzò proprio Giovanni e altri figli di Ruggero Pascoli).

Quanto a Bigecca, c’è da dire che fra quelli che lo scagioneranno c’era anche Raffaele Pascoli, detto “Felino” fratello minore di Giovanni, e dico il fratello minore buono, non la pecora nera della famiglia Pascoli, cioè Alessandro Giuseppe, che aveva tre soprannomi, come si legge nelle memorie di Mariù: nei momenti buoni era detto Peppe, nei momenti così “Lascaro” e nei momenti peggiori “Paglierani” (qui con la ‘e’) anche perché aveva, secondo Mariù, anche la colpa di aver sposato una vedova Pagliarani con relativi figli di primo letto.

La verità più probabile di questo odio di Mariù è invece dovuto al fatto, secondo me, che Luigi e altri Pagliarani erano o erano stati compagni di osteria e di discorsi socialisteggianti, non solo dei fratelli minori Raffaele e Alessandro Giuseppe, ma anche dello stesso Giovanni, il quale anche se probabilmente non bazzicò mai osterie ebbe da giovane trascorsi e amicizie anarchiche e socialiste, come sappiamo, e si beccò anche il carcere a Bologna semplicemente per essere andato ad assistere al processo di Andrea Costa.

A proposito del delitto Pascoli voglio anche ricordare che in quel periodo non fu ucciso soltanto il fattore-capo o intendente Ruggero Pascoli, ma anche un fattore Gori, sempre alla tenuta La Torre dei Torlonia: anche i Gori fecero a suo tempo le loro indagini e il risultato fu il medesimo di quello di un’inchiesta ufficiale o ufficiosa sul delitto Pascoli: certi mesi dell’anno i mezzadri della tenuta La Torre usavano arrotondare le loro entrate facendo un notturno e ovviamente clandestino contrabbando di sale delle vicine saline di Cervia, e a un certo punto Ruggero Pascoli volle impedirlo, sia perché la faccenda era contraria alle legge sia perché i contadini rendevano di meno nel lavoro dei campi in quel periodo in cui la notte facevamo i contrabbandieri: in questo clima maturò l’assassinio dei fattori Pascoli prima e di Gori poi, ci sia stato o no qualcuno che – come ha sempre pensato Giovanni Pascoli – abbia manovrato la faccenda per carpire l’importante incarico che Ruggero Pascoli aveva nella tenuta dei Torlonia.

“Se tu fossi quella che io direi dovresti essere…”

Giuseppe Argenziano, 75 anni, è un pensionato che ama la poesia.
Laureato in geologia, ha insegnato al liceo scientifico di Termoli (CB) e poi, per 10 anni. all’Istituto Professionale Alberti di Rimini. Abita a Santa Giustina ed è socio della Banca del Tempo Q5 di Rimini.

Nella 4^ edizione del premio letterario “Città di Corridonia”, dal titolo “Voci della nostra gente”, è stato segnalato come autore in rappresentanza della Romagna, per la poesia, “Ricordi”, dove Argenziano racconta di un amore vissuto da giovane..

Ma a Cristella piace molto anche “Ti voglio così come sei”, poesia dedicata alla moglie Maria Maura, anche lei socia della Banca del Tempo.

Ti voglio così come sei (di Giuseppe Argenziano)

Se tu fossi

quella che io direi dovresti essere

non saresti

quella che tu sei.

Mi fai soffrire

mi fai star male

mi fai impazzire,

ma cosa sarei io

se tu non fossi

quella che tu sei.

Che vita sarebbe la mia

che angoscia sarebbe per me.

Che cosa io farei

se tu non fossi

quella che tu sei.

Ti amo

e sei la sola.

Ti adoro.

Ti voglio per me.

Sei gioia

vita

chimera.

Sei

quella che tu sei

e sei la mia unica donna.

 

 

 

 

Trovato il lavoro ideale: si viaggia molto e…

Ne è passata, di acqua sotto i ponti, da quando, nel lontano settembre del 1979, Cristella ha iniziato la sua carriera lavorativa nel mondo del lavoro. Nel senso vero: impiegatuccia/travet nel minuscolo Ufficio di Collocamento di Gatteo. Uno stanzino polveroso tre metri per due, dove non c’era neppure posto per far stare seduti comodamente il collocatore titolare e la sottoscritta appena arrivata. Ufficio ammobiliato con scaffaletti in faggio, schedari zeppi di tesserini rosa in cartoncino e consunti libretti di lavoro da riempire con timbri, carta velina e fogli copiativi blu per scrivere a mano i nulla osta in quadruplice copia, la disoccupazione che pagavamo con 800 lire al giorno, aziende che correvano avanti richiedendoci personale che il giorno dopo “mandavamo” subito, fossanche la prima quattordicenne baldanzosa che varcava la soglia del nostro ufficio.

Era così, giuro.

Poi le cose sono cambiate. Dal 1987 stop a graduatorie e richieste nominative  e numeriche: se vuoi essere assunto devi piacere al datore di lavoro, devi saperti vendere senza contare sull’assistenzialismo dell’ufficio pubblico (salvo le eccezioni – giuste – delle ‘categorie protette’).

E qui comincia la comica: quante ne ho sentite, agli sportelli, in oltre trent’anni!

Mille volte, sempre con voce alterata: “sono iscritto da dieci anni e non mi avete mai trovato un impiego!”

Perché dai, tu sei lì al suo servizio, mica per scaldare la sedia come fanno tutti gli statali. “Io ho reddito zero e non marco una giornata da tanti anni! Il lavoro me lo trovate, sì o no?”

E se qualcuno entra in quel momento per dire: “C’è da spostare la mercedes qui davanti!”, indovinate di chi è è quella mercedes?

Ma come hai fatto a vivere in questi dieci anni, col reddito zero, dico io. Non è che lavori in nero o che evadi le tasse che poi io pago per te?

A dire il vero, momenti realmente drammatici come quelli di questi due ultini anni non si sono mai visti. File file file. Giovani, adulti, donne, uomini, italiani e stranieri, nuovi e “vecchi” disoccupati.

E le risposte non ci sono. Non per colpa nostra. Noi impiegati cerchiamo di guadagnarci lo stipendio con lo spirito di servizio che è doveroso per chiunque faccia qualsiasi tipo di lavoro. Posso garantire che la dignità personale non ha crepe, su questo aspetto.

Ma ne abbiamo viste tante, che certe volte, per sdrammatizzare un po’, ci consoliamo raccontandoci questa storiella (ma non crediate che non siano mai successi, questi dialoghi…).

INTERNO GIORNO. Sportello di un qualsiasi ufficio di collocamento (o Centro per l’impiego, o agenzia del lavoro…).

“Ma insomma, quand’è che mi manda a lavorare, signora? Lei sta lì a scaldare la sedia? Io vengo da cinque anni a timbrare il cartellino e non mi fa mai delle proposte!”

“Ah, oggi è fortunato, signor X. Proprio ora un albergatore di Torre Pedrera è venuto a cercare un lavapiatti.”

“Torre Pedrera? Ma vorrà scherzare. Io abito a Miramare! Troppo lontano!”

“Scusi, scusi. Pensavo… Vediamo un po’. Ecco, forse questo fa per lei: cercano un operaio nell’edlizia.”

“Al freddo e alla pioggia? Ho un po’ di reumatismi. Non ha qualcos’altro?”

“Cerco, aspetti. Bello! Sì sì. Questo è giusto: commesso nel Centro commerciale Le Befane.”

“Ci vada lei: lì ti fanno lavorare anche al sabato e alla domenica…”

A questo punto anche la Cristella più paziente del mondo è o non è legittimata a perdere le staffe? Non certo l’ironia, però.

Scartabella un altro po’ e, trionfante, dice a mister X:
“Ah, questa offerta non se la può far scappare!”

“Dica dica, signora!”

“Guardi, fa proprio per lei: c’è da viaggiare facendo del sesso…”

“Oh, vede che se vuole il lavoro giusto per me lo trova? Di cosa si tratta?

“VA A FAN CULO!!!!”