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Buona Pasqua con le uova benedette

Ci sono tradizioni dure a morire…

Quest’anno Cristella ha deciso solo all’ultimo momento di andare in chiesa a portare a benedire le uova per la colazione del giorno di Pasqua.

E’ un gesto che in Romagna si ripete, da chissà quanto, nel pomeriggio del Sabato Santo. Ogni famiglia porta sull’altare il suo cestino di uova – crude o già rassodate – avvolte in un bel tovagliolino ricamato. E’ quasi una gara a chi ha il pizzo o il cestino più bello e delicato… Ai bambini, di solito, viene dato il compito di dipingere le uova o decorare il cestino stesso.

Don Giuliano, il parroco di Viserba, ha posto un bel cartello accanto all’altare: “Benedizione uova dalle 14.30, ogni mezz’ora”.

Cristella negli ultimi anni – da quando le principesse sono cresciute e non dipingono più il loro ovetto – aveva incaricato delle benedizione la sorella. Oggi, invece, ha voluto riprovare… Forse è anche un percorso suggerito da questi giorni così angoscianti.
Insomma, per farla breve: nella piccola chiesa di Viserba fra le 14.30 e le 15.00 è stato un continuo arrivare. Signore anziane, giovani donne e qualche papà coi figli tutti emozionati, alcuni uomini adulti… Molte persone che non frequentano spesso la chiesa… L’altare non è bastato. E si trattava solo della prima “mandata” di benedizioni! Don Giuliano ha dovuto aggiungere due panche per far posto ai cestini che continuavano ad arrivare.
Uno spettacolo commovente, che fa capire quanto le nostre tradizioni siano dure a morire.

Una bimba sui quattro anni accompagnava la nonna e, fiera, portava il suo mini-cestino.

“Ti posso fare una foto?”

Domani mattina, dunque, uovo sodo e una fetta di ciambella. Come da tradizione.

Ecco cosa scrive Vittorio Tonelli, noto scrittore folclorista, nel suo libro “Il diavolo e l’acqua Santa in Romagna”.

Le uova, che un tempo non si mangiavano durante la quaresima, si accumulavano in cucina per gli impasti delle pagnotte e dei passatelli, per essere cotte sode (quelle benedette) e servite a colazione al mattino di Pasqua, con la pagnotta.

Prima di mangiare si baciava l’uovo, si diceva un Pater-Ave-Gloria e si provvedeva a buttar il guscio nel fuoco, manifestando lo stesso rispetto usato dalla massaia per l’acqua di bollitura, che, considerata benedetta, si conservava come detergente prodigioso della pelle o si buttava, propizia, nell’orto o sulle siepi (o, comunque, dove non poteva essere calpestata).

Buona Pasqua a tutti!

I dé d’la mérla

Attenzione: stanno arrivando i tre giorni più freddi di tutto l’anno: i dé d’la mérla.  

 

Il 29, il 30 e il 31 di gennaio secondo una tradizione popolare diffusa in tutt’Italia sono infatti comunemente detti  “i giorni della merla”.

Ma perché?

Per alcuni queste giornate vengono chiamate così perché l’aria è talmente fredda che i poveri merli cadrebbero stecchiti. Per altri, invece, il motivo è esattamente il contrario: le giornate sono sensibilmente più lunghe e i merli sono invitati ad uscire dai loro ripari invernali “quasi a presagire l’imminenza della primavera”.

Ne scrive anche l’enciclopedia Wikipedia: “Il nome deriverebbe da una leggenda secondo la quale, per ripararsi dal gran freddo, una merla e i suoi pulcini, in origine bianchi, si rifugiarono dentro un comignolo, dal quale emersero il 1° febbraio, tutti neri a causa della fuliggine. Da quel giorno tutti i merli furono neri.

Secondo una versione più elaborata della leggenda una merla, con uno splendido candido piumaggio, era regolarmente strapazzata da gennaio, mese freddo e ombroso, che si divertiva ad aspettare che la merla uscisse dal nido in cerca di cibo, per gettare sulla terra freddo e gelo. Stanca delle continue persecuzioni la merla un anno decise di fare provviste sufficienti per un mese, e si rinchiuse nella sua tana, al riparo, per tutto il mese di gennaio, che allora aveva solo 28 giorni. L’ultimo giorno del mese, la merla pensando di aver ingannato il cattivo gennaio, uscì dal nascondiglio e si mise a cantare per sbeffeggiarlo. Gennaio si risentì talmente tanto che chiese in prestito tre giorni a febbraio e si scatenò con bufere di neve, vento, gelo, pioggia. La merla si rifugiò alla chetichella in un camino, e lì restò al riparo per tre giorni. Quando la merla uscì, era sì, salva, ma il suo bel piumaggio si era annerito a causa del fumo e così rimase per sempre con le piume nere.

Come in tutte le leggende si nasconde un fondo di verità. Anche in questa versione possiamo trovarne un po’. Infatti nel calendario romano il mese di gennaio aveva solo 29 giorni, che probabilmente col passare degli anni e del tramandarsi oralmente si tramutarono in 31.

Per quanto la leggenda parli di una merla, nella realtà questi uccelli presentano un forte  dimorfismo sessuale nella livrea, che è bruna – becco incluso – nelle femmine, mentre è nera brillante – con becco giallo-arancione – nel maschio.”

 

Insomma, ovunque voi siate, preparate guanti e piumini: pr’i dé d’la mérla e fa pròpri frèd!  

Le cantarelle di Cristella

Dicesi cantarella una preparazione tipica romagnola fra le più semplici e povere. Acqua e farina, così come per la piada. Ma in proporzioni diverse. Anche la cantarella, come gli altri cibi del territorio, cambia ricetta di famiglia in famiglia. Un po’ come il dialetto, dove inflessioni e cadenze hanno mille sfumature e passano, negli anni, da padre in figlio (o da madre in figlia, quando si parla di cucina).

Féma dù cantarèli?”(facciamo due cantarelle?), era la proposta che a noi bambini faceva venire l’acquolina in bocca.

Ui vò la tègia ròssa e la legna bòna”, mi ha detto oggi, convinta, la Pierina d’e’ Zàqual, dall’alto dei suoi 97 anni. La teglia rossa per dire che il fuoco, sotto alla padella o alla teglia da piada, deve essere fortissimo, fino ad arroventarla. La legna buona, perché il modo migliore per cucinare le cantarelle sarebbe sopra un bel fuoco vero, nel camino o nella vecchia stufa a legna.

Dovendo arrangiarsi con l’attrezzatura presente nelle cucine moderne, Cristella ha usato una padella antiaderente posta sul fornello a gas aperto al massimo.

La ricetta è davvero semplice: si fa una pastella piuttosto densa con un bicchiere di acqua, ½ bicchiere di latte, 4 cucchiai colmi di farina, un cucchiaino di sale, un cucchiaino di bicarbonato. Quando la padella è molto calda, usando un mestolo si versa un poco di pastella fino a formare un disco del diametro di circa 10 centimetri. Si lascia cuocere da una parte per un paio di minuti (si formano delle bolle). Quando la cantarella si stacca facilmente dalla padella, la si gira dall’altro lato e si cuoce ancora per un minuto circa. Si continua così finché si finisce la pastella. Per mantenere tiepide le cantarelle, si dispongono in un piatto una sopra all’altra.

Il condimento tradizionale – il migliore in assoluto, secondo Cristella – prevede una spruzzata di zucchero semolato e un filo di buon olio extra vergine di oliva.

Hmmm! Mangiare per credere! Morbide, profumate, il sapore ricorda l’infanzia, apre il cuore, la pancia, la memoria…

Un’altra versione, pure questa legata ai sapori di casa, prevede la farcitura con composte dolci fatte dalle brave arzdore di una volta: e’ savor (o savour), la saba, i fichi caramellati, le marmellate casalinghe.

Le cantarelle, nella loro semplicità, sono strettamente imparentate con i pancakes anglosassoni, i blinis russi e le crèpes francesi. A casa mia si preparavano, di solito, in inverno, durante il Carnevale. E comunque di sera, dopo cena (tenendo presente che si cenava poco dopo il tramonto, verso le 18!).

Per chi volesse provare, potrebbero diventare anche una buona merenda. Genuvina genuvina!

Buon appetito!

Impasto

La cottura

La doratura

sono cotte!

e sono buone!

Dedicato alle mamme, dedicato alle figlie

Scrivo in una breve pausa fra un’azalea e l’altra.

No, non ho aperto un negozio di fiori: come tutti gli anni mio marito ed io collaboriamo, in qualità di volontari dello Ior (Istituto Oncologico Romagnolo) all’iniziativa che si ripete in tutte le piazze d’Italia in occasione della festa della mamma.

Questa mattina sono stata a Viserba, insieme all’amica Paola, a vendere azalee ai miei concittadini e ad alcuni turisti di passaggio. Fra un’oretta tornerò là. Paolo, invece, fa la spola fra Viserba e Rimini, dove aiuta le altre signore e signorine (!!!!) mettendo a disposizione la sua forza e i suoi muscoli per montare e smontare banchetti e ombrelloni.

L’anno scorso, però, ho mancato al mio impegno.

Domenica 13 maggio 2007, all’alba, nella giornata della festa della mamma, la mia dolcissima mamma Pierina ha chiuso gli occhi per sempre, all’ospedale di Cesenatico, circondata dai suoi quattro figli.

Una mamma speciale (come può una mamma non esserlo?) a cui ho dedicato il mio libro “Trama e ordito, mamme che tessono la vita”.

il saluto di mamma Pierina

Una mamma che sembra aver scelto il giorno giusto per salutarci: il mese di maggio, dedicato alla Madre di Gesù e profumato di rose, una domenica, festa della mamma, 13 maggio (90° anniversario dell’apparizione della Madonna di Fatima).

Credo che ripetere questo mio “impegno” per le mamme con lo Ior, pensando alla solidarietà, alla cura e all’assistenza dei malati, alla ricerca medico-scientifica per il futuro mio e delle mie figlie sia il modo migliore per onorare la memoria di mamma Pierina.

Trascrivo alcune pagine di “Trama e ordito, mamme che tessono la vita”.

Per concludere, dal mio diario, una pagina di vita scritta il 28 febbraio 1986, una giornata storica. Come un nodo doppio ha fissato con forza quel filo partito da mamma Pierina e che continua con Dora e Cinzia, le mie ragazze. “Sono diventata mamma! La gioia di quest’esperienza è indescrivibile: i maschi non potranno mai capire. Sensazioni, brividi, sentimenti quasi impossibili da raccontare. Dora è nata alle otto di questa mattina, dopo un travaglio durato sei-sette ore. Ho sofferto. In certi momenti, quando non riuscivo a controllare le spinte e mi sentivo spaccare in due, ho avuto molta paura ed ho urlato il male con tutto il fiato che avevo in gola. Eppure, ce l’ho fatta anch’io. O, meglio, Dora, con enorme fatica, è riuscita a percorrere il tunnel del parto per affacciarsi al mondo. In un attimo ho dimenticato il dolore: quando ho conosciuto mia figlia. E’ stato meraviglioso! Nell’istante stesso in cui l’ho vista, rossa in viso, braccia e gambe tonde, cicciottina, bellissima, tutta sporca, che strillava strizzando occhi e pugni, ho pensato alla mamma. Lei era fuori nel corridoio, a distanza di qualche metro, a soffrire vicino a me questo passaggio, mentre in sala-parto c’era Paolo, bravissimo assistente. In un attimo ho sentito il legame di figlia: nel momento stesso in cui sono diventata madre. Mi sono passati davanti ventisette anni della mia vita di figlia. Ho risentito le carezze della mamma. Ho ricordato i suoi sacrifici, le difficoltà passate. Quanto ha sofferto quand’ero ammalata! Ho rivissuto una notte in cui la febbre mi faceva delirare, quando avevo circa dodici anni. Sognavo di affogare in un mare calmo e piatto, liscio come l’olio. Da quel liquido immobile mi tirava fuori lei. E lei era lì davvero: tutta la notte sveglia a tenermi la mano e a patire. Stamattina, alle otto precise, i miei occhi hanno rivisto veramente quella notte!

Dora, Cinzia, mamma Cristella

E’ Viserba o Cenerentola? C’è chi crede alle favole

i due sottopassi previsti a Rivabella e a Viserbella 

I quotidiani locali di oggi (ma anche quelli di ieri e l’altro ieri) hanno riempito pagine intere con l’argomento che sta scaldando gli animi dei viserbesi da qualche tempo.
Se fosse un film, dovremmo chiamarlo “Alla ricerca del sottopasso perduto”.
Brevemente, per chi non è di qui: la linea ferroviaria adriatica, costruita a poche decine di metri dal mare, spezza letteralmente in due la città di Rimini e tutti i paesi e le cittadine che sorgono a nord e a sud (Cesenatico, Gatteo, Bellaria, Viserba, Miramare, Riccione, Cattolica, ecc.). Se un centinaio d’anni fa questo non dava eccessivi problemi, lo stesso non si può dire di oggi, con l’inevitabile espansione urbanistica che ha interessato le aree a monte della ferrovia. In un piano generale che prevede la chiusura di tutti i passaggi a livello (cosa già attuata nella zona sud di Rimini) anche in vista della trasformazione della linea in Metropolitana di Costa (quindi con frequentissimi passaggi di convogli) qui da noi succederà una vera e propria rivoluzione.
I miei concittadini hanno preso carta e penna per sottoscrivere una protesta indirizzata al Sindaco visto che era stata comunicata l’intenzione dell’amministrazione di lasciare Viserba senza sottopassaggi. I comunicati “rassicuranti” che annunciano (meglio dire “promettono”) una sorta di dietro-front al riguardo sono stati emanati ieri, poche ore dopo la  tumultuosa assemblea cittadina di lunedì sera, di cui sono stata testimone.
Personalmente, ringrazio per l’attenzione data in questo caso ai viserbesi e spero con tutto il cuore che i miei nipoti possano vedere le opere concluse.
Però, da vecchia giornalista anche un po’ maliziosa e da scrittrice di favole, posso dire una cosa fuori dai denti?
Ne ho sentite tante di promesse su Viserba! In dodici anni di professione ho scritto tonnellate di articoli sulle magagne a cui ci hanno abbonato, sui mega-progetti sbandierati, l’edificazione subita, la viabilità disegnata a tavolino da fantasiosi artisti, il brutto e costoso (per i contribuenti) arredo della piazza con le mattonelle che ballano ogni volta che ci passo in bicicletta, gli allagamenti causati dalla cementificazione di tutto quanto c’era da cementificare, le aree incolte lasciate a sé stesse e alle bisce diventate allevamenti delle zanzare tigre, le fontane storiche dimenticate asciugate e seppellite per i dispetti fra privati e Comune, le piccole attività commerciali costrette a chiudere perché sono stati autorizzati degli ipermercati mangiatutto dentro la città…
L’elenco potrebbe continuare: non so quante penne ho consumato, a quante riunioni politiche, inaugurazioni, sedute di Quartiere ho partecipato. Per abitudine non getto mai fotografie, bloc-notes ed agende con i miei appunti: ne ho rimediato uno scaffale pieno, un giorno potrò scrivere la storia di Viserba.
In forma di favola, naturalmente: perché, appunto, i favolisti sono i primi ad accorgersi quando qualcun altro racconta favole…
Insomma, il tempismo con cui sono stati emanati i comunicati di ieri a Cristella fa sorgere qualche sospetto… Per il resto, come dicevo, ne ho sentite, di promesse e di rassicurazioni, in questi anni!  
Ho quasi cinquant’anni e non credo che vedrò come sarà Viserba fra altri cinquanta. Vista l’assenza di lungimiranza dimostrata da chi prende le decisioni importanti per questo territorio, penso di non essere l’unica ad avere questo pensiero: “che ce frega, mica ci saremo, fra cinquant’anni”.
 E le mie figlie, i miei nipoti?
Per concludere, una sorta di gioco. Date un’occhiata agli articoli di oggi che parlano dei sottopassi di Viserba (potete consultare la rassegna stampa disponibile sul sito della Provincia cercando la data che vi interessa o facendo una ricerca per parole-chiave) e provate ad individuare quali sono stati scritti al chiuso di una redazione “fidandosi” dei comunicati-stampa inviati dalla diverse parti interessate (ente pubblico, comitati, singoli consiglieri) e quale, invece, è stato scritto da una giornalista che si è recata sul campo.

Non sarà l’inviata in terre di conflitto, d’accordo, ma nel nostro piccolo anche questi particolari possono fare la differenza.