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I sogni si nascondono sulle nuvole

I sogni si nascondono nelle nuvole. Tornano giù, sulla terra, solo quando si avverano.
Protagonista di una mia favola è Trilly, una piccola fata che col suo retino ogni notte vola sopra i tetti delle città alla ricerca dei sogni perduti, quelli che stanno lassù, sulle nuvole.
Quando queste si riempiono troppo, i sogni ricascano giù. I brutti sono incubi e scendono trasformandosi in grandine e tuoni, quelli belli diventano pioggerella sbarazzina che scende delicata. Trilly, col suo retino, cerca di acchiappare quelli che stanno cadendo per sbaglio, per rimetterli al loro posto, ognuno sulla sua nuvola. Perché quando si fa confusione coi destinatari dei sogni, succedono grossi guai!
Ognuno ha i suoi sogni ricorrenti.
Io volo. Talvolta in alto, evitando il traffico delle automobili, ma rischiando di impigliarmi nei rami degli alberi più alti e nei fili dell’alta tensione. Altre volte volo più basso, solo qualche centimetro da terra e – sempre nel sogno – mi meraviglio che chi mi sta vicino non faccia caso a questo mio superpotere.
Sogno spesso l’esame di maturità (trent’anni fa!), ma anche le corse per non perdere il treno che per otto anni mi ha portato a scuola (eppure ero sempre la prima, in stazione, visto che i miei genitori mi hanno educato a “non arrivare mai tardi”).
Gli esami da sostenere, i treni da non perdere, gli appuntamenti da rispettare, volare un po’ più in alto degli altri: c’è materiale per qualche psicanalista, vero?
Oggi scrivo di sogni perché m’è capitato fra le mani un volume di Raffaello Baldini (“La nàiva, furistìr, ciacri”, Giulio Einaudi Editore Torino, 2000), poeta santarcangiolese che ho incontrato due o tre volte (l’ultima per la grande festa del suo 80° compleanno, al teatro Supercinema, qualche mese prima della sua scomparsa).
Aperto a caso il libro, mi ha attirato una bella poesia di Lello sui sogni.
A parte il sognare “dal doni bèli” (nel mio caso si tratta di “oman bél”) questi versi fotografano anche le mie notti oniriche.
I insogni (di Raffaello Baldini)
La nòta, mè, un insògni taca cl’èlt,
tòtt’ al nòti, l’è un cino, mo dabòn,
mé quant a m’indurmént,
l’è cm’a féss e’ bigliètt, quèll ch’u m suzéd,
a còrr, a voul, di post ch’a n gn’ò mai vést,
i m da dri, dal paéuri, u m bat e’ cor,
dal dòni, bèli, dal zità ch’a m pérd,
di culéur, zéinta véiva, zéinta morta,
ma dal cumbinaziòun ad robi che
dal volti a déggh, sémpra tl’insogni, quèsta
a la vooi racuntè, pu la matéina
a m svégg, a péns, a péns,e a n’m’arcòrd gnént.
 

I sogni
La notte, io, un sogno via l’altro,
tutte le notti, è un cinema, ma davvero,
io quando mi addormento,
è come se facessi il biglietto, quello che mi succede,
corro, volo, dei posti che non ho mai visto,
mi rincorrono, delle paure, mi batte il cuore,
delle donne, belle, delle città che mi perdo,
dei colori, gente viva, gente morta,
ma delle combinazioni di cose che
delle volte dico, sempre nel sogno, questa
la voglio raccontare, poi la mattina
mi sveglio, penso, e non mi ricordo niente.

T’ci propri un invurnìd!

Tornando a casa dall’ufficio in sella alla mia bicicletta elettrica, oggi pomeriggio avevo la testa fra le nuvole – come capita abbastanza spesso – e pensavo alle due settimane di ferie che mi attendono…

Disegnato al centro del centro della città di Rimini (l’antica piazza del Foro, oggi piazza Tre Martiri) da qualche anno c’è un grande sole. Ogni volta che passo di lì, come gesto forse scaramantico, ho la mania di voler tagliare il sole esattamente a metà (un po’ come quando, camminando, cerco di non calpestare le righe fra le mattonelle…).
Insomma, per farla breve: distratta com’ero, ho rischiato di investire una coppia di anziani signori che, a biciclette appaiate, tagliavano il sole nell’altro verso.
Os-cia, ac invurnìda!”, mi ha gridato dietro uno di loro, quello che ad una prima occhiata sembrava ancor più rintronato della sottoscritta.
Invurnìd, invurnìda: chi frequenta un romagnolo avrà già sentito questo termine.
E’ un po’ come pataca, non facile da tradurre tutto d’un colpo.
Secondo Friedrich Schurr (professore austriaco che si specializzò nello studio del dialetto romagnolo), l’etimologia di questa parola deriva dal latino volgare ebrionia (da cui deriva pure il toscano sbornia e il francese ivrogne).
Gianni Quondamatteo, nel suo Dizionario Romagnolo Ragionato, spiega: “invurnìd significa stordito, intontito, istupidito, sciocco, tonto, tardo. In molti casi senza commiserazione alcuna, ma con un pizzico di rabbia, di cattiveria. Sa sit invurnit oz? (Sei invornito, oggi?) dici quando trovi un lavoro malfatto. Se gli autori sono più d’uno, invece, J è na squedra d’invurnìd! (Sono una squadra di invorniti). Di una persona anziana dici: ormai l’è bèla dvènt invurnìd (Ormai è quasi diventato un invornito).”

Per fortuna i freni della bicicletta hanno funzionato. Altrimenti, i giornali di domani titolerebbero:

Con la testa fra le nuvole oscura il sole della piazza
Invornita di mezza età investe due attempati pataca
Tutti i particolari nella pagina degli spettacoli


Oltre che invornita, pure curiosa: qualcuno sa come si traduce in altre lingue e in altri dialetti?

I prepotenti del disco orario

Giuro che l’articolo sui parcheggi di Viserba, oggi su Il Resto del Carlino di Rimini, non l’ho scritto io. E non sono neppure “il cittadino che definisce la situazione alquanto bizzarra”.

Se in una frazione come la nostra quasi tutti i parcheggi (pochi, a dire il vero) situati nei dintorni degli esercizi commerciali più frequentati sono a disco orario, dobbiamo solo ringraziare chi l’ha deciso…

Un’ora basta e avanza per andare a comprare il giornale e prendere un caffé. Basta per fare la spesa al mercatino della frutta o acquistare qualcosa in farmacia…

“Se non vuol prendere una multa – dice il protestante – chi lavora alla casa di riposo o al mercato ortofrutticolo deve uscire ogni ora a cambiare il disco. Cosa assurda, anomala e fuori senso. Il parcheggio libero, a 300 metri, è troppo scomodo”.

Sarò antipatica, ma io a questa gente la multa la farei doppia! Il disco orario è messo lì proprio per dare la possibilità a tutti di fermarsi quel tanto che basta per il pane, il giornale, l’aspirina…

A parte il fatto che 300 metri a piedi farebbero bene a tutti e che in altre situazioni non ci si lamenterebbe proprio (chiederei a chi abita a Milano o a Roma, cosa pensa quando trova un parcheggio libero e gratuito a 300 metri dalla sua meta), avrei compreso una protesta del tipo: “chiedo ai vigili di avere un occhio di riguardo se tolgo la macchina dopo qualche minuto dalla scadenza del disco, perché magari l’impegno che avevo si è protratto”.

M’è capitato, tempo fa, di andare per un acquisto importante da un negoziante di Viserba (niente nomi, non è il caso). Pioveva a dirotto e tutti i posti – a disco orario – di fronte al suo negozio erano occupati. Parcheggiai dunque un po’ distante e, nonostante ombrello ed impermeabile, arrivai lì grondante.

“Vengo subito a servirla, signora – disse il tipo appena entrai – mi assento un attimo per andare a cambiare il disco orario alla macchina.”

Un bel Suv ingombrante, parcheggiato esattamente di fronte alla vetrina.

Ci tornereste, voi, a fare la spesa lì?

Notizie… di prima mano

Ricordate il mio post sulle “dotazioni” di Luca Cordero di Montezemolo e di Diego Della Valle?

Bene. Non l’avrei mai sperato, ma l’appello lanciato nelle ultime due righe (scherzoso, naturalmente) è stato ascoltato. E ad alte sfere, che nemmeno potete immaginare!

Come giornalista regolarmente iscritta all’albo ho il diritto di non rivelare le fonti e non lo farò neppure sotto tortura. Per comprensibili motivi di… ehm… sicurezza coniugale, lo sa solo mio marito…

Ebbene, non vi svelo il mittente (più che attendibile, credetemi!), ma soltanto il testo del messaggio ricevuto l’altro ieri:

Da informazioni di prima mano apprendiamo che anche Della Valle è un pezzo grosso e non ha nulla da invidiare all’amico Luca.”

Su cosa l’espressione “di prima mano” voglia significare, lascio libera la vostra fantasia…

La mia risposta al messaggio?

Breve ed incisiva, come insegna il linguaggio giornalistico:

Mi fa molto piacere per lui. E per la sua partner!”

Chiamarsi Dora, a Rimini

Quando nacque la mia primogenita, nel 1986, come ogni mamma felice scelsi il nome con grande consapevolezza.
Doveva essere breve e suonare bene col cognome, non straniero (tutte quelle Katiuscie e Gessiche, scritte in tutti i modi e in tutte le salse!), ma neppure troppo frequente (in quel periodo andavano di moda Valentine, Giulie e Martine, che poi mia figlia a scuola se n’è trovate cinque o sei in contemporanea).
Insomma, dal libro dei nomi avevo infine scelto Teodora. Per il suo significato etimologico, che rispecchiava la mia gioia di quel momento (“dono di Dio”), gioia che dura tuttora, naturalmente. Poi, per rispetto a mio marito, non credente, pensai bene di abbreviare in Dora.

Solo qualche anno dopo la nascita della pargola scoprii che a Rimini “andare dalla Dora” è un modo di dire radicato e non proprio semplice da spiegare ad una bimba. Ne sorrideva, qualche tempo fa, anche Sergio Zavoli, a cui raccontavo questa storia familiare. Ci ho sorriso pure io. “Vabbè – mi sono detta – il nome che ho scelto per il mio ‘dono’ è comunque meraviglioso e originale. Ce ne sono così poche, di Dora come la mia…”
Per i lettori non riminesi viene utile una breve spiegazione.

Fino al 1958 “la Dora” di Rimini era la più nota tenutaria di casa chiusa, in via Clodia, la strada dei bordelli (come via delle Oche a Bologna, per intenderci, quella in cui è ambientato l‘omonimo racconto di Carlo Lucarelli). La Dora cambiava le ragazze ogni due settimane e per mettere in mostra i nuovi arrivi (ah, la pubblicità!) organizzava un giro in carrozza.

Ritroviamo “la Quindicina” della Dora anche nelle immagini di Fellini e nei racconti di Zavoli.
“Le falene, così erano chiamate dagli studenti, arrivavano in città un sabato sì e uno no, come reparti che si diano il cambio sulla linea del fronte. Una catena che non oso chiamare di Sant’Antonio, teneva legate l’una all’altra le ‘case’, un provvido scambio quindicinale serviva a rinnovare la scena, se non proprio il copione. La domenica, a mezzogiorno, era di rito la passeggiata con la carrozza scoperta perché la gente vedesse. L’esibizione attirava un codazzo di bambini che si arrampicavano schiamazzando sul mantice, respinti da mani quasi materne. I virtuali clienti occhieggiavano dalle finestre, dai bar, dai negozi, valutando pezzo per pezzo quel bouquet di donne offerto all’invisibile platea in un modo che accordasse la propaganda con la discrezione, le regole della salvaguardia privata con quelle della pubblica sicurezza. Così, mentre dalle vetture le ragazze si guardavano intorno, attraverso vetrine e finestre la gente perbene vedeva e non vedeva. Alla fine della passerella – girato l’angolo e presa la strada della stazione, con la città finalmente alle spalle – i cavalli volgevano quasi in fuga verso il mare, sospinti dalle grida festose delle falene. E lo spettacolo, quello innocente, finiva lì.” (da “Romanza” di Sergio Zavoli, 1987, Mondadori Editore).

C’è stata solo un’occasione, ultimamente, in cui avrei volentieri strozzato un attempato signore riminese che in luogo pubblico ha voluto fare il simpatico, secondo me sbagliando tempi e modo.
Ero alla festa annuale dei donatori di sangue in rappresentanza della ragazza, donatrice da tre anni ed impossibilitata ad essere presente poiché studia a Roma, a Tor Vergata. Come lei, un’altra Dora quel giorno veniva premiata con la borsa di studio destinata agli studenti donatori. Al mio turno ho voluto richiamare questa bella coincidenza (lo so, che ogni tanto dovrei stare zitta, lo so!).
“Dora significa dono – ho detto al microfono – e oggi avere due ragazze donatrici di sangue, a Rimini, che portano questo nome mi pare sia un bel segno.”
Il tipo che mi stava premiando (anzi, premiava Dora per vece mia), prende il microfono e dice, sogghignando: “Però ai riminesi di una certa età la Dora fa venire in mente un’altra cosa…”
Mi dispiace solo di non essere stata pronta a rispondergli a tono.
La battuta giusta m’è venuta poco dopo, a scoppio ritardato, quando non avevo più il microfono a disposizione.
“Beh, ho comunque ragione io – gli avrei detto – pensa un po’ quanti bei doni, da parte di ‘quella’ Dora, per i riminesi come te!”