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Oggi è il Blog Day

Blog Day 2007 

Oggi è il Blog Day. Così almeno ho letto in alcuni blog che frequento.

Essendo “nuova del settore”, mi affido quindi alle informazioni datemi dagli altri.

“Il Blog Day è iniziato con la convinzione che i blogger dovrebbero avere un giorno da dedicare a conoscere altri blogger, di altri paesi o aree di interesse. Quel giorno i blogger li raccomanderanno ai loro visitatori. Durante il Blog Day ogni blogger posterà una raccomandazione di 5 nuovi blog. Quel giorno tutti i lettori di blog si troveranno a navigare e scoprire nuovi, sconosciuti blog.”

Bene. Nella mia breve esperienza (tre mesi o giù di lì) ho imparato che un blogger che si rispetti deve leggere i blog degli altri (è un po’ come la storia di quelli che vogliono fare gli scrittori ma hanno la biblioteca spoglia…).

E, possibilmente, è opportuno lasciare commenti, farsi conoscere. La rete vive di questo, di scambio.

Il primo blog che segnalo, quindi, è quello di Placida Signora, presente quotidianamente con le sue pillole di saggezza, la sua ironia, le storie e le curiosità che spesso incontrano la mia sfera di interessi. Placida Signora risponde a ciascuno dei suoi commentatori, dimostrando così una cortesia che li affeziona. E’ successo anche con me.

Il secondo blog (preciso che questa non è una classifica, intesi?) è quello della Principessa sul pisello. Mi ha attirato il nome e ho subito curiosato. Bella scrittura, contenuti “tosti”, post da rileggere periodicamente quando un sassolino nella scarpa (o un pisello sotto al materasso) ti disturbano la vita. Vai, Marina, sei forte!

Tre: La torre di Babele, il blog del giornalista Pino Scaccia. Non penso che abbia bisogno di tante presentazioni… Accidenti, però, non riesco a lasciare commenti (devo imparare ad usare al meglio ques’ostia di computer).

Quattro: Liuk, ovvero Luca di Chiavari col suo Miarrangio. Perché mi ha segnalato (!!!!); perché mi ha consigliato la ricetta del pesto genovese; perché s’incazza con quelli della Telecom e perché… insegna a coltivare l’orto sul balcone.

Quinto, un blog che ho scoperto solo ieri sera, ma mi piace un sacco. Si tratta di Shaindel, una studentessa di lingue 22enne che dal Venezuela impara l’italiano attraverso i blogger. Non dico di più: leggerla per credere.

Ne avrei altri da segnalare, ma il gioco del Blog Day ne prevede solo cinque.

Magari la prossima volta, ok?

Blog Day

Montezemolo “il grande” in prima pagina

Ce ne sarebbe abbastanza per pubblicare un’antologia. 
Scorrendo attentamente le pagine dei giornali mi capita di notare, oltre ai titoli con gli immancabili errori di ortografia (nell’era del computer, ahinoi, non ci sono più i vecchi e cari correttori di bozze) accostamenti o giochi di parole curiosi.
Penso non sempre voluti, ma piuttosto legati al caso.
Ricordo un bel titolo a caratteri cubitali, qualche anno fa, sotto la fotografia di un assessore comunale di Rimini, oggi consigliere, che all’epoca si stava occupando di uno dei tanti motori immobiliari cittadini.
“L’affare si ingrossa!”, titolava in prima pagina il quotidiano locale più letto.
 Probabilmente sono particolarmente maliziosa, ma a me, ogni volta che incontro il tizio in questione, viene sempre da ridere…
 La stessa cosa mi è successa oggi.
Dalla prima pagina dell’edizione riminese de Il Resto del Carlino sorridono i faccioni di Luca Cordero di Montezemolo e di Diego Della Valle, ospiti del Gran Premio di Motociclismo che si terrà fra pochi giorni a Misano, a due passi da qui.
Sulla foto campeggiano due parole: “Pezzi grossi”.
Una sana risata, questa la mia immediata reazione. Proprio ieri, infatti, lo stesso giornale aveva pubblicato un articolo a firma del suo direttore Mazzuca intitolato “Lo ‘zizì’ di Luca risolleva l’Italia”. Un pezzo di colore sulle dimensioni “degne di nota” di cui è dotato il Luca nazionale, oggetto dell’ultimo gossip estivo fomentato dagli scatti rubati dal solito paparazzo.
Fotografie, titoli, vignette talvolta dicono più di lunghi articoli. La satira e l’ironia, in questi casi, sono anche più dirette ed efficaci.
Per la cronaca: nella foto del Carlino, Montezemolo, con quell’espressione un po’ compiaciuta, pare stare al gioco…  
Chissà se anche Della Valle può competere con Mister Fiat-Confindustria, come “pezzo grosso”?

Mi pare di sentire un coro di donne: “fatecelo sappé”.
O, ancor meglio: “fatecelo veddé!”

I ravioli al sugo di pesce più buoni di Rimini? Alla Festa dell’Unità di Lagomaggio.

“Mamma, stasera uscite, vero?”

Quando viene da una figlia ventenne, questa semplice domanda sottintende: “Sai, perché ho già invitato a casa i miei amici e voi due sareste di troppo, visto che la cucina è una sola e la tv pure. Tra l’altro ho già ordinato otto pizze ed altrettante birre e fra un po’ arriva il pony-express. Mica ce le vorrai far mangiare fredde o accovacciati nella mia cameretta? Vero, mà, che stasera tu e il bà avete un bell’impegno in giro, magari una sagra o un concerto? E poi, volevamo guardare l’ultimo film scaricato da internet…”
Allora? Il bà ed io, si cerca di far buon viso a cattivo gioco… D’altronde anche noi abbiamo avuto vent’anni, no?

Per le cene fuori casa, a Rimini e dintorni ristoranti e pizzerie non mancano.

Ma d’estate (benedetta sia l’estate!) ci viene in soccorso il ricchissimo calendario di sagre, che solo a nominarle talvolta  viene anche da ridere: da quella della patata e degli gnocchi di Montescudo, a quella delle pappardelle al cinghiale di Gemmano, passando dalla dolcissima Festa del miele di Montebello.
Quasi ogni sera, dunque, si può scegliere una destinazione raggiungibile in mezzora di macchina e godersi qualche specialità cenando al fresco, su in collina.
E le Feste dell’Unità, dove le vogliamo mettere? In questi giorni il dibattito è aperto sul nome. Come si chiameranno in futuro questi appuntamenti, quando a gestirli saranno i volontari di un partito che ancora deve nascere? Boh?
Comunque, che si chiamino Feste dell’Unità o dell’Ulivo, poco importa. Che si mangi in piatti di plastica e su lunghi tavoloni, beh, si può anche chiudere un occhio, quando dentro ai piatti ci trovi qualcosa che ti piace.
 
Da giugno a settembre il calendario delle Feste dell’Unità, qui da noi, lascia pochi giorni vuoti.
Io e il bà, gentilmente invitati a lasciar libera la casa, ci siamo così fatti quasi tutte le feste della provincia (e altre ce ne saranno…), sviluppando una conoscenza critica di quanto offrono questi improvvisati chef, che spesso sono professionisti in pensione o prestati per qualche sera al partito.
Alla Festa di Canonica, andare per credere, si sono specializzati nella trippa e nelle lumache in umido. A Viserbella (caso unico, ripetono la festa anche fra Natale e Capodanno) in cucina ci sono dei pescatori, così come a Bellaria. Quindi  qua si deve assolutamente ordinare lo “spiedino del marinaio”, cucinato a vista su di un letto di sabbia: il fuoco al centro e, infilati verticalmente in cerchio, a una ventina di centimetri, gli spiedi di legno di tamerice con pesce succulento che si cucina al calore della fiamma viva. A Santarcangelo si va per la trippa (seconda solo a quella di Canonica, secondo una coppia di nostri amici), ma anche per il cinghiale con polenta. Rimini si ricorda per tutti i piatti di pesce e per la pizzeria, gestita dall’associazione Rimini Pizza fondata dall’amico Carmelo Calabrese. Ma il piatto più buono di quest’anno, ai primi di agosto, l’ho gustato alla Festa del quartiere Lagomaggio, a Rimini: ravioli al ragù di pesce come non ne avevo mai mangiati!
Non saranno ristoranti da Guida Michelin, d’accordo, ma secondo il mio modesto parere certi piatti delle Sagre delle patate e degli strozzapreti (che dir si voglia) e delle Feste dell’Unità o dell’Ulivo (che P.D. voglia) sono davvero impareggiabili.

Potrei anche raccogliere le segnalazioni dei lettori di questo blog su specialità assaggiate in feste e sagre, perchè no? Magari ne vien fuori una guida nuova ed originale, con o senza stelle…

“Uscite anche stasera, mà?”
“Si, bella. E non sai cosa perdi…”

Ma a lei, signora, cosa manca?

Ho appena aggiunto nei miei link preferiti il blog della Principessa sul Pisello, una bella ragazza che vive nel regno della Valscrivia.

Come Regina Cristella, l’ho incontrata solo pochi giorni fa in uno dei miei peregrinare in rete e mi ha subito incuriosita. Scrittura ironica e leggera, ogni tanto ti stordisce con un bell’affondo.

Intanto, per conoscerla un po’ anche voi, leggetevi questa cronaca (vera) di una normale e tranquilla giornata nel suo castello, Villa Arzilla.

Ciao, principessa Marina. Come nelle migliori cartoline: “baci da Rimini”. 

“Come vi ho già detto, qui a Villa Arzilla (per le puntate precedenti vd. nelle categorie), c’è sempre un gran via vai: studenti di musica che vengono un po’ da tutto il mondo per studiare canto con mio padre e mia zia, amici miei, amici e parenti dei miei genitori e, naturalmente, infermiere e medici per me. In queste due categorie si annoverano i più disparati elementi: l’oculista che mi porta i libri da leggere, il dietologo che mi parla d’arte e di Genoa, il dermatologo che sentenzia “tutti dobbiamo morire” e le espertissime e affettuose infermiere del servizio sanitario che mi portano peluche e buonumore. Proprio da una delle infermiere, in una fredda nevosa giornata, mi arrivò il seguente sms: “oggi ti porto un medico giovane e bello”. L’occasione era ghiotta e, nonostante il cuore irrimediabilmente impegnato, non potevo mancare al gustoso invito: cambio di camicia e di pannolone, passando dalla versione ascellare a quella baby, pettinata veloce, zaffata di profumo e occhio, quello ancora buono, languido. Ora, come avrete capito, la maggior parte dei medici che mi frequentano, viene, più che altro, per farsi una cultura medica, poiché io sono una sorta d’enciclopedia vivente per la quantità di sfighe e di patologie che assommo. Il Dottor F., effettivamente raro esemplare del genere maschile, assai affascinante e simpatico, dichiarò subito, bontà sua, di essere venuto solo per conoscermi (che, in poche parole vuol dire che voleva vedere da vicino la “rarità”medica!) e per sapere se avevo bisogno del suo aiuto, occupandosi lui di “terapia del dolore”. Provvedendo io, immantinente, a fare i debiti gesti scaramantici, sotto le coperte, sbattendo il mio occhio buono, scrivendo sul pc, lo rassicurai che, per il momento, non soffrivo di dolori e che, in ogni caso, lo avrei tenuto presente. La gaia conversazione si spostò poi su altri argomenti, allietata dalla presenza dei miei genitori e dalle due garrule infermiere, una delle quali, sicuramente, invaghita del doctor (stile E.R). Preso dalla foga della sua conversazione e affascinato dalla sua stessa voce, il novello Gorge Clooney, si sbizzarrì  con una domanda di carattere social-altruistico che segnò la sua rovina: ” Ma a lei, signora, cosa  manca?” Il silenzio cadde sugli astanti: tutti mi guardavano sorridenti e trepidanti mentre, solo il volto di mia madre, lasciava trasparire l’orribile presentimento che solo un cuore di mamma ha.  Con calma, pregustando la mia gioia, presi a scrivere, e sul video, campeggiò la mia risposta Cosa mi manca? S-C-O-P-A-R-E!”  Il Dottor F. sta ancora ridendo…”   

Dizionario romagnolo A – L

Avviso ai naviganti: più che di dizionario, si dovrebbe parlare di glossario. Infatti in queste pagine inserisco, di volta in volta, i termini dialettali che uso nei post. Quasi tutte le definizioni sono tratte dal Dizionario Romagnolo Ragionato di Gianni Quondamatteo.

Almadìra. Così chiamano, a Riccione, quanto il mare, dopo la burrasca, lascia sulla spiaggia. Sono alghe od altri vegetali marini che si ammonticchiano talora in grosse quantità. Raccolta e seccata all’aria e al sole, serviva di combustibile per la povera gente. Nell’almadìra (a Rimini almadéra) sono frammischiati pregadio, scurèzi ad dulféin, caparozi, pisoti e talvolta cannelli e poveracce. A Cattolica dicono: la spiagia l’é pina d’usne.

A m’arcmand. Arcmandè-s: raccomandarsi. A m’arcmand, dice la mamma al figlio che parte soldato. E dice tutto in quel verbo: che fili dritto, che scriva, che si nutra, che indossi la maglia di lana al momento giusto.

Arcurdè-s, ricordare, ricordarsi, rammentare. A m’arcòrd quand ch’a séra burdél… (mi ricordo quand’ero bambino). Mè a m’arcòrd ancora ad cl’eltra guera (io mi ricordo ancora dell’altra guerra). Chi s’arcòrda piò? (chi si ricorda più?). E arcòrdte ad caminè drét! (E ricordati di camminare dritto!), sia come minaccia, sia come paterno conisglio al figliolo che va a lavorare a Milano (nota per Gianluca, il mio lettore romagnol-milanese: ti giuro che nel Dizionario Romagnolo Ragionato di Quondamatteo è proprio scritto così!). T’an t’arcòrd piò quand tcèrte in bulèta? (Non ti ricordi più quand’eri in bolletta?). Molti lo dimenticano e, a ricordarglielo, c’è da farseli nemici.

Arzdora (o azdora) è la reggitrice della casa, alla quale sono affidati precisi compiti nel governo della casa.

Era bene che restasse sempre fra le mura domestiche, perché, dice un detto, “cvand che l’arzdora la va in campagna, l’è piò quel ch’la perd ch’n’è quel ch’la guadagna” (quando la reggitrice va in campagna, è più quello che perde di quello che guadagna).

Bucalòn. Voce usatissima per indicare lo stupidone, il babbeo, e anche l’ingenuo, in senso buono. L’è un pòri bucalòn! (E’ un povero credulone!). Nu fa e’ bucalòn! (Non fare lo sciocco!).

Cantarèla, cantarella. Semplice farina sciolta in acqua e messa sul testo a cuocere; tolta, veniva poi condita con olio e zucchero. Dolce più che semplice e casalingo, che allietava le serate. Fema du cantarèli?, facciamo due cantarelle?. C’è chi completa la ricetta aggiungendovi un po’ di farina di polenta, per renderla più morbida, e un po’ di latte.

Cuchèl. Ornit.: il gabbiano comune (Larus rudibundus), ma anche altre specie di gabbiani. Si dice cuclèssa per il (più grande) gabbiano reale (Larus argentatus) e cucalèt per il gabbianello (Larus minutus) e per le rondini di mare. Tra i nostri cocali, uno dei più grossi chiamato e’ chèga (il caca), ha la pessima abitudine di aggredire i più piccoli per farli vomitare e mangiare quanto espellono. Un proverbio: e’ cuchèl int la maréina (presso o sulla spiaggia), al va al pigre int la staléina, le pecore guadagnano l’ovile (perché il tempo volge al peggio). Fig.: uomo semplicione, come bucalòn. L’è un cuchèl! Cocàlo, scrive Panzini, e cocàl, dice, “è sinonimo di uomo magrissimo, come pure d’uomo stupido, forse per l’immobilità della posa, forse anche perché pessimo a mangiarsi, cibandosi di pesci.”
Faquajòn – chi “fa coglione” un’altra persona, chi imbroglia il prossimo, anche in cosa di minima importanza. L’è un faquajòn, si dice.

Garbéin – garbino, libeccio. E poiché proviene da sud-ovest, questo termine scaturisce dall’arabo garbì, ovvero occidentale, o garb, occidente. Tale autorevole origine si riverbera altresì nello spagnolo, nel provenzale e nel dalmatico (garbin). E’ un vento caldo, afoso, che soffia a raffiche, quasi sempre precursore di pioggia. Garbinàz, quand’è addirittura insopportabile. E’ un vento che dà anche sui nervi, che il meteoropatico preavverte con una diffusa irrequietezza anche molte ore prima: a sént e’ garbéin (sento il garbino), si dice; e, quando soffia, a so ingarbinèd (sono ingarbinato). L’ha e’ garbéin (ha il garbino), ha i nervi tesi. E’ va se garbéin, di chi è di comportamento mutevole. Fin che tira ste garbéin… (fin che tira questo garbino), fin che le cose stan così… Poiché il garbino è vento mutevolissimo, incostante, così si dice di persona che cambi dea, di voltagabbana: t’è la faza cume e’ garbéin (hai la faccia come il garbino) o t’fé tòtt al fazi cume e’ garbéin (fai tutte le facce come il garbino). In campagna: se garbéin e’ bòl e’ véin (col garbino bolle il vino) e con questo vento non si travasa il vino e non si “smette” il baghino (il maiale). Foriero, abbiamo detto, di tempo cattivo: siròc e’ garbéin, dicono infatti i marinai. D’estate, soprattutto, il garbino precede lo scirocco e l’immancabile pioggia. Di qui il modo di dire campagnolo: e’ garbéin en mèt sò e’ lèt a maréina (il garbino non mette su il letto in mare), non si ferma, cioè, ma ritorna indietro sotto forma d’altro vento e provoca guai; si dice anche adès e’ va zò e’ garbéin, l’è quand che torna indré! (adesso va giù il garbino, è quando torna indietro!). Sempre in campagna, per chi ha i capelli in disordine, o gli abiti, si dice: l’è rufid cum per e’ garbéin (è arruffato che mi sembra il garbino). Garbéin s-cèt (garbino schietto) o garbéin frèid (garbino “marcio”), quando non vi sono dubbi di sorta.

Gnara. Le locuzioni la è gnara, la s’fa gnara esprimono una situazione o un momento duri, difficili, critici. Anche la j è gnèra. La terra difficile a lavorarsi, è pure gnara; e così di un inverno che si preannunci cattivo, pesante per le conseguenze, si può dire quest l’è un’invernèda ch’la s’fa gnara!

Impajèda – la puerpera è l’impajèda. Nelle “Relazioni dei parroci del dipartimento del Rubicone, al podestà di Forlì (1811), c’è l’espressione a j’ò la moi int’la paja (ho la moglie nella paglia), che il marito pronunciava quando la moglie aveva partorito. Mentre a j’ò la moi in s’l’aròla (sull’arola) era detto quando la donna avvertiva le prime doglie. Alle prime doglie la donna sedeva davanti al focolare, coi piedi sull’arola, appoggiandosi alla conocchia. Impajèda era anche il pranzo in occasione del battesimo. Andém da l’impajèda (andiamo a trovare la puerpera) e le si portava in dono una gallina per fare un buon brodo, uova fresche, zucchero, caffè, ciambella. La prima uscita della puerpera era dedicata alla chiesa per l’offerta alla Madonna di un mazzo di candele.

Infézna. Sembianza, aspetto, immagine: le caratteristiche che contraddistinguono un volto, una persona. Avé l’infézna, averne l’aspetto, le sembianze; l’ha l’infézna de su pòri ba, è la copia di suo padre, è tutto suo padre.
Te d’ dis ch’l’è un tòc d’putèna? La m’aveva un pò d’infézna! Dici che era una puttana? Mi pareva che ne avesse l’aspetto! Avé ‘na brotta infézna, avere una brutta cera. Di uno che capisce poco: l’ha l’infézna de sumar (ha l’aspetto del somaro). Non mi ha l’aria, non ne ha l’aspetto, si traducono con un m’ha l’infézna!

Invurnìd. Stordito, intontito, istupidito, sciocco, tonto, tardo. In molti casi senza commiserazione alcuna, ma con un pizzico di rabbia, di cattiveria. Sa sit invurnit oz? (Sei invornito, oggi?) dici quando trovi un lavoro malfatto. Se gli autori sono più d’uno, invece, J è na squedra d’invurnìd! (Sono una squadra di invorniti). Di una persona anziana dici: ormai l’è bèla dvènt invurnìd (Ormai è quasi diventato un invornito).”

Luloun. Nel dialetto ravennate del sec. XVII valeva, “uomo senza cervello”. A Rimini e’ luloun è un po’ e’ bucalòn: chi gioca con bambini più piccoli di lui, chi si muove bambinescamente.