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Altra ricetta per la Notte Rosa

Insalata russa in rosa

 

Costretta agli arresti domiciliari per un altro po’, Cristella si cimenta in cucina.
E siccome a Rimini e dintorni in ‘sti giorni il tormentone è “la Notte Rosa”, bisognava strolgare qualcosa per l’occasione.

Negli anni passati avevano avuto un certo successo gli “strozzapreti rosa al gorgonzola” e il dolce, il “porcospino rosa“.

Mancava un contorno (che poi potrebbe essere anche antipasto). Ecco allora la “salade Olivier en rose”.

Altrimenti nota come “insalata russa”, ho aggiunto ai classici ingredienti una rapa rossa, che ha colorato un po’  il tutto.

Ho lessato al dente, separatamente, dei piselli, delle carote e delle patate già tagliate a cubetti. Una volta raffreddate le verdure, le ho mescolate in una ciotola, aggiunto sale, pepe, aceto, alcuni cetriolini tagliati a cubetti e una rapa rossa precotta tritata finemente. Amalgamato il tutto con una buona dose di maionese.

Sistemata per bene in una terrina, l’ho decorata con alcuni cetriolini.

Adesso è in frigorifero, perché dopo qualche ora è migliore.

Bon appétit!

Puràz chi li vend, puràz chi li compra, puràz chi li magna

Al puràzi (le vongole) una volta erano il cibo dei poveri (puràz chi li ciàpa, puràz chi li vend, eccetera…), dove “puràz”, per chi non fosse romagnolo, significa proprio “poveraccio”. Oggi costano un occhio della testa, sia al ristorante, sia in pescheria.

In ogni caso, al puràzi portano in casa il sapore di mare come poche altre cose. La giornata di oggi è testimone.

Siccome so’ acciaccata (cioè sono in convalescenza e quindi con tanto tempo da passare fra le stanze di casa) e siccome oggi a Rimini c’è un clima autunnale, ho pensato bene di dedicare un paio di ore a nuovi esperimenti culinari.

Spiedini di gamberetti con foglie di alloro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Iniziamo dal secondo: gli spiedini di gamberetti. Non è la prima volta che li preparo, ma la novità è rappresentata dalle foglie di alloro. Consiglio della sorella Tiziana, cuoca sopraffina, che dice: “Un gamberetto e una foglia, un gamberetto e una foglia. Li facciamo così anche nell’albergo. ” Con successo, così come in casa Morolli oggi.

Al puràzi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Passiamo alle vongole (al puràzi) della premessa. Semplici, profumate, fatte aprire in un tegame dove avevo scaldato un po’ di olio con aglio e prezzemolo tritati.  Una metà sono state servite così, tipo antipasto caldo. L’altra metà è andata per la preparazione del primo: i passatelli in brodo di vongole.

La ricetta di questo primo che scalda la pancia (e oggi ci voleva proprio!) nasce su ispirazione di una foto postata su FB da Licia, direttore del Centro di Formazione Cescot Rimini: un piatto di passatelli offerti da un ristorante riminese, foto e ricetta che, per me, sono apparsi subito come una provocazione: “Ce la devo fare anch’io!”

Pur se con qualche variante…

E quando mi metto in testa qualcosa, non mi ferma neppure il maltempo: sono uscita sotto l’acquazzone per andare alla Conad (devo solo attraversare la strada) per comprare le vongole. Accompagnata dal Re Consorte munito di ombrello.

Mentre al puràzi si aprivano nel tegame con olio, aglio e prezzemolo, in una pentola ho preparato un brodo con gambi di prezzemolo, sedano, carota, cipolla, sale.

Una volta aperte le vongole, ne ho sgusciate un paio di manciate e le ho tritate.

In una pentola ho fatto imbiondire in due cucchiai di olio una mezza cipolla tritata e uno spicchio di aglio intero (che poi ho tolto). Ho aggiunto le vongole tritate, fatto insaporire un po’, sfumato con mezzo bicchiere di vino bianco. Ho aggiunto un mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro e poi aggiunto il brodo che avevo preparato nell’altra pentola e il liquido prodotto dalle vongole (filtrato, per non rischiare eventuali avanzi di sabbia).

Sistemato il sapore con un po’ di dado di pesce e fatto  sobbollire per circa 30 minuti.

Nel frattempo ho preparato i passatelli (2 uova, un cucchiaio di farina, pane grattugiato e parmigiano grattugiato in uguale misura fino a formare un impasto piuttosto duro. Passato i passatelli nello schiacciapatate e gettati direttamente nel brodo di vongole. Appena sono venuti a galla, ho spento il fuoco e coperto, lasciando riposare per un quarto d’ora: i passatelli, anche quando cotti in brodo di carne, esigono questo riposo, durante il quale i sapori si “sposano”.

Serviti in fondine con qualche vongola col guscio giusto per fare un po’ di scena.

Il Re Consorte ha apprezzato.

Passatelli in brodo di vongole

Valderico, il “dicitore” di Torre Pedrera.

“Uno di questi giorni lo vado a trovare”….

Quante volte, negli ultimi anni, Cristella ha pensato, e regolarmente messo in secondo piano, ad un saluto a Vittorio Valderico Mazzotti, sapendolo fermo in casa da tempo.

Poi, come succede spesso, la buona intenzione invecchia lì, senza aver seguito. E così poco fa, leggendo il necrologio sul giornale di oggi, arriva la notizia: il poeta dialettale di Torre Pedrera, 92 anni, ci ha lasciati per sempre. I funerali saranno domani alle ore 16.

C’è stato un periodo, circa quindici anni fa, di frequentazione abbastanza continua, per l’interesse comune per il dialetto e le “robe” romagnole. Ricordo ancora l’arrivo a sorpresa della sottoscritta, con fotoreporter del Resto del Carlino al seguito, al pranzo per il suo 80° compleanno, all’hotel Punta Nord.

“Sono un ‘dicitore’ – diceva – più che poeta.”

Il fascino più grande, in effetti, era quando lo si poteva ascoltare declamare le zirudelle di Giustiniano Villa o i versi di Raffaello Baldini.

Simpatico, irruente, dal carattere “tosto”. Mi piace ricordarlo così.

Ecco come Vittorio Valderico raccontava, in poesia, l’amico Fis-ciòun, “il pescatore” di Viserba.

Duvè ch’e’ sta Fis-cioun?

Volta so in via Rossini,

a sinéstra po’, la sgonda,

ta t’ trov òna ad cal stradini

ch’la è ziga, che la n’ sfonda.

T’void a destra una capana,

un ch’e’ sbòffa m’un fugoun,

un mòcc’ ad zenta cla sgulvana

e t’si arvat! Ui stà Fis-cioun!

(Dove sta Fischione? Volta su in via Rossini, a sinistra poi, la seconda, ti trovi una di quelle stradine, che è cieca, che non sfonda. Vedi a destra una capanna, uno che sbuffa ad un focone, tanta gente che si abbuffa. E sei arrivato! Ci sta Fischione!)

 

E’ arrivato il momento: Cristella va dal Grande Fratello.

Ecco, la valigia è pronta. C’è anche il nuovo smartphone regalato dal Re Consorte, che permetterà i contatti web.

impariamo ad usare lo smartphone nuovo…

 

 

 

 

 

Cristella attendeva da mesi che il Grande Fratello la chiamasse. Non quello della Tv, naturalmente (chi resisterebbe?). Per tanti motivi, assomiglia di più a quello di Giorgio, George Orwell.

Una settimana o poco più di “vacanza” nella sua casa (dicono ci sia anche il wireless!).

 

 

 

Da domani, giovedì 23 maggio 2013, Cristella non sarà molto presente in rete, perché starà per qualche giorno sotto l’occhio attento del mitico GF.

Di più: grazie ai potentissimi mezzi della tecnica, egli scruterà Cristella entrandole dentro nel senso vero della parola (“endoscopicamente”, sarebbe la probabile definizione nella neolingua di Orwell).

E venerdì 24 maggio, ad un’ora non ancora conosciuta, il GF chiamerà a sé “scienza e coscienza” per penetrare la Regina fino “al centro del centro” di tutto il suo essere.

Che la sua mano non tremi e l’occhio sia limpido, questa la preghiera rivolta al Grande Padre.

Av salùt (non è neolingua di Oceania, bensì dialetto di Rimini.

Cos’è la “neolingua” del GF? 

«È qualcosa di bello, la distruzione delle parole. Naturalmente, c’è una strage di verbi e aggettivi, ma non mancano centinaia e centinaia di nomi di cui si può fare tranquillamente a meno. E non mi riferisco solo ai sinonimi, sto parlando anche dei contrari. Che bisogno c’è di una parola che è solo l’opposto di un’altra? Ogni parola già contiene in se stessa il suo opposto. Prendiamo “buono”, per esempio. Se hai a disposizione una parola  come “buono”, che bisogno c’è di avere anche “cattivo”? “Sbuono” andrà  altrettanto bene, anzi meglio, perché, a differenza dell’altra, costituisce l’opposto esatto di “buono”. Ancora, se desideri un’accezione più forte di “buono”, che senso hanno tutte quelle varianti vaghe e inutili: “eccellente”, “splendido”, e via dicendo? “Plusbuono” rende perfettamente il senso, e così “arciplusbuono”, se ti serve qualcosa di più intenso. Naturalmente, noi facciamo già uso di queste forme, ma la versione definitiva della neolingua non ne contemplerà altre. Alla fine del processo tutti i significati connessi a parole come bontà e cattiveria saranno coperti da appena sei parole o, se ci pensi bene, da una parola sola. Non è una cosa meravigliosa?» .  

«Ovviamente» aggiunse come se gli fosse venuto in mente solo allora, «l’idea iniziale è stata del Grande Fratello.»

(da “1984”, di George Orwell).

E’ b-dòc arfàt

Diciamo la verità: una cosa è definire qualcuno “pidocchio rifatto”. Altra è sentenziare “bdòc arfàt”.
Anche in questo caso l’uso della lingua madre dà un’idea ben più precisa, diretta, piena.
“E’ bdòc arfàt” si contrappone al vero signore che non dà a vedere di esserlo.
No, no. Il “nostro” non conosce la riservatezza e il limite: deve assolutamente far capire agli altri che lui (o lei), sì che è ricco e può permettersi questo e quello. Mi pare di sentirlo: “Io, a te, ti compro e ti vendo tutte le volte che mi pare…”.
Quanti aneddoti si potrebbero raccontare su questi esemplari! Uno è rimasto ben stampato nella mia mente. Risale a una ventina di anni fa, in un ristorante della zona, per la festa di pensionamento del mio capo-ufficio. Fra gli invitati, quindi, oltre a noi semplici travet, c’erano anche alcuni consulenti del lavoro e commercialisti. Non per generalizzare sulla categoria professionale, per carità, ma proprio uno di questi, arrivato con una strombazzante auto fuoriserie ed elegantemente incravattato, uno di quelli che per anni ci aveva guardato dall’alto al basso, confermò in me l’assunto del “bdòc arfàt”.
Dopo un paio di portate e qualche bicchiere di vino che avevano aiutato a scaldare l’atmosfera conviviale fra noi impiegatucoli e loro, i vip, iniziammo a discutere di cibi strani: rane, lumache… et similia.
“Buone, le lumache! – dico io – I francesi sono maestri, a cucinarle. A me piacciono soprattutto ‘à la bourguignonne’. Sì, proprio buone!”.
“Anche a me piacciono – dice il ‘bdòc arfat’ di turno – Però, sa, signora, ogni volta che vado a Parigi, io non vado mica a mangiarle alla bourguignonne, ma a Versailles…”.
Ah, ah! “Ogni volta che vado a Parigi…”.
Ma fam e’ piasér: a sò piò sgnòura mé, ènca senza la machinouna e se a Parigi a i sò andèda snò una vòlta! (ma fammi il piacere: sono più signora io anche senza il macchinone e se a Parigi ci sono andata solo una volta!).
T-ci propri un bdòc arfàt!