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Non essere pataca: ti si alza la pressione!

Ci sono ancora, eccomi!
Dopo la sfacchinata sui tetti di Rimini di sabato notte e la sudata di domenica al centro commerciale Le Befane sto lentamente tornando nei panni di Cristella, quelli “à la tous les jours”.
Ciò significa che ogni mattina alle sette e mezzo ci si mette in macchina nel traffico di Rimini per andare in ufficio, dove c’è un badge da timbrare in orari mica tanto flessibili, un centinaio di persone che cercano lavoro con cui parlare ogni giorno, altrettante telefonate cui rispondere, nuovi colleghi con cui riorganizzare la micro-struttura che con altri (i “vecchi” colleghi) avevamo messo su negli ultimi 8-9 anni… Che volete che sia… Quisquilie, direbbe Totò.

Perché mica finisce lì: una volta tornate a casa bisogna anche fare la spesa, predisporre la cena, pensare agli addobbi natalizi che rischiano di rimanere in bella mostra per settimane, fare un salto dal medico per una ricetta, ritirare le analisi, portare la Fiesta nuova a fare il tagliando, scrivere un articolo che è stato richiesto da tempo, rispondere senza ansia a chi ti chiama sul cellulare nei momenti meno indicati. Eccetera eccetera eccetera.

Qualcuno sa dirmi perché in questo periodo ho la pressione alta?

Vatti a rileggere la poesia di Raffaello Baldini dove si dice, all’orologio che corre sempre: férmat, pataca!”

A proposito, avete visto l’ultima pubblicità televisiva con Valentino Rossi e Paolo Cevoli? Uno si affaccia alla finestra per dare del “pataca” all’altro (notare che “si dà del…”, non “si dice…”).

Godetevi questo pezzo di Zelig, visto che ci siamo.

Dopo la parola “amarcord” sdoganata da Tonino Guerra e Federico Fellini (che in realtà sarebbe composta da due parole: “am arcord”, mi ricordo, voce del verbo “arcurdès”) anche “pataca” è forse destinata a diventare d’uso comune nella lingua italiana?
In tal caso, non fate figuracce: ricordatevi (arcurdév) che si scrive con una sola “c”. Mi raccomando!
Am arcmand: “pataca”.
Adesso mi fermo anch’io.
Devo ancora appendere al chiodo la scopa da Befana e chiudere nell’armadio, fino all’anno prossimo, la sottana e le calze rotte.

Job talkiamo?

Col titolo “Buon 2008 ai poeti, operai dell’avventura, da JobTalk”, il blog di Job 24, inserto del quotidiano economico più famoso d’Italia (Il Sole 24 Ore), dà la misura di quanto il nuovo spazio web gestito e diretto dalla giornalista Rosanna Santonocito spazi oltre i confini istituzionali che riguardano il mondo del lavoro.

Lo visito e lo commento come “addetta al lavoro”, trovandolo interessante per le mille informazioni e i tanti aggiornamenti che riguardano la mia professione di operatrice in un Centro per l’impiego. Ma anche per il piacere di leggere pagine di giornalismo di qualità che offrono qualcosa di più del puro nozionismo tecnico.

Si parla e si discute di chi il lavoro ce l’ha e di chi lo cerca; di chi lo prende, lo lascia e lo riprende; di chi lo vorrebbe diverso; di chi, donna, pensa che se fosse nata maschio lo avrebbe più qualificato; di chi studia e va all’estero per ottenerlo; di chi lo racconta nei libri e nei blog; di chi lo filma, di chi lo disegna e di chi lo canta… E di chi, come Alda Merini, ne fa poesia.

“L’augurio che non ti saresti aspettato da un quotidiano economico”, così titolerei il post di Jobtalk del primo gennaio e che, semplicemente, riporta la poesia della Merini che copioincollo qui sotto.

Ma anche nell’ultimo inserto settimanale del giovedì Nòva 24 non si scherza: “Oggi è il primo giorno del resto della tua vita”, c’è scritto a tutta pagina. I colleghi si stanno ancora chiedendo perché, come addetta di turno alla rassegna stampa quotidiana, questa mattina mi sia dilungata più del solito a “studiare” il giornale dalle pagine rosa che nessuno di loro vorrebbe mai spulciare…
“Meditate, gente, meditate!”, vorrei annotare per tutti sulle fotocopie che ho distribuito…

E godetevi “l’anno che porti cose migliori”. A partire da oggi, da adesso. E anche da domani, che sarà di nuovo il nostro oggi.
ANNO CHE PORTI
di Alda Merini

Anno che porti cose migliori forse o forse una cornucopia di abbandoni…

Certamente l’amore,

se stringiamo le nostre mani dentro i nostri giorni caleranno i giudizi universali nei nostri auspici:

siamo grandi, ormai, finalmente grandi e forti da credere al delirio della pace che è la sola certezza.

E finalmente i poeti, operai dell’avventura,

canteranno i peana della grazia….

Cumé i walzer ad Bilòz: i finés in gnint

Curiosando senza meta, ieri ho scoperto su Youtube diversi spezzoni dei film di Fellini.

Confesso che ho passato qualche ora attaccata al computer a guardarmeli…

Ogni tanto, qualche flash su fatti, personaggi o luoghi riminesi che conosco anche senza i suggerimenti del regista. Di alcuni ho già fatto cenno in post precedenti (per questo ho da poco aggiunto nel blog una “categoria Fellini”).

Sono collegamenti che mi piacciono.

Continuo con l’aiuto del poeta e commediografo Guido Lucchini, che nel suo libro “Raconta Remin, raconta” (Pietroneno Capitani Editore 2004) ci fa conoscere Bilòz, immortalato in Amarcord (in questo trailer del film, al punto 2.40, al passaggio del Rex è quello che chiede agli altri “Com’è? Com’è?”)

Bilòz, disegno di Pier Antonio Costantini

Scrive Lucchini:

Bilòz era un suonatore ambulante di organetto, non vedente. Suonava così, senza alcuna logica musicale. Suonava ad orecchio ogni motivo e canzone che sentiva. Erano tradizionali i suoi walzer, perché i andeva a finì in gnint (andavano a finire in niente), tanto è vero che ogni affare non concluso o un amore finito nel nulla erano classificati come “i walzer ad Bilòz”.


Bilòz

E sunèva tal cantéini dla zità

e sunèva se su urganéin

che tnéva a tracòla.

Un sunè senza féin

du che pochi nòti strapazèdi

lis pardéva te vusè

cl’aveva atorna.

L’òcc ciùs, senza piò luce,

forse e durmiva,

forse l’arpasèva tla su meint

i solit pensir

al soliti sperenze,

che pu tòtt us n’andèva finì in gnint

cum’è i su valzer.

Suonava nelle cantine della città

suonava col suo organino

che teneva a tracolla.

Un suonare senza fine

dove poche note strapazzate

si perdevano nel vociare

che aveva attorno.

L’occhio chiuso, senza più luce,

forse dormiva,

forse ripassava nella sua mente

i soliti pensieri,

le solite speranze,

che poi tutto se ne andava a finire in niente

come i suoi valzer.

Férmat, pataca!

… piò t còrr tè, piò e’ còrr léu,

t si cmé un burdèl sla giostra

ch’u n gn’aréiva mai me caval davènti,

mo sl’arlòzz l’è un èlt zcòurs,

parchè e’ témp, sé, l’è sémpra dri ch’e’ pasa,

mo u n’à méggh’ ‘na gran testa,

u n’è gnènch’ bòn ‘d cuntè,

u n’e’ sa, léu, quèll ch’ l’è un minéut, un’òura,

ènch’ mezdè, s’u n gn’e’ sòuna e’ Campanòun,

par léu l’è tòtt cumpagn, sàira, matéina,

Nadèl, Pasqua, léu e’ pasa, e’ va drétt,

férmat, pataca, a n déggh par mè, par té,

guèrda un pò e’ mond,

sè, l’è cmè déi putèna ma la vòulpa,

u n s ragiòuna se temp, ta n pò fè un zcòurs,

ta n sé mai cmè ciapèl,

mo par furtéuna u i è l’arlòzz…

Questo è un brano della poesia “L’arlòzz” (l’orologio) di Raffaello Baldini.

In italiano perde un po’ di magia nel suono e nel ritmo.

Mi piace immaginare questo brano letto dalla voce dell’autore, anche se non sarà più possibile. Provo a leggerlo ad alta voce: bisogna provare e riprovare. Dopo un po’ si arriva ad un risultato appena decente.

In italiano, tutt’altra cosa. Comunque, eccone la traduzione:

… più corri, più corre,

sei come un bambino sulla giostra,

che non arriva mai al cavallo davanti,

ma l’orologio, è un altro discorso,

perché il tempo, sì, è sempre lì che passa,

ma non ha mica una gran testa,

non è neanche capace di contare,

non lo sa, lui, cos’è un minuto, un’ora,

anche mezzogiorno, se non glielo suona il Campanone,

per lui è tutto uguale, sera, mattina,

Natale, Pasqua, lui passa e va dritto,

fermati, pataca, non dico per me, per te,

guarda un po’ al mondo,

sì, è come dire puttana alla volpe (*),

non si ragiona col tempo, non puoi fare un discorso,

non sai come prenderlo,

ma per fortuna che c’è l’orologio…

Chi voglia ulteriormente meditare sul passar del tempo, può cliccare qui.

(*) “dir puttana alla volpe”, cioè “déi putèna ma la vòulpa” significa “fare una cosa inutile, di nessun senso”

La festa della donna? 365 giorni all’anno

A guardare i giornali e le trasmissioni televisive urlate pare che il mondo sia proprietà dei Vip.
E delle Vippe-donne.
Se non sei una Paris Hilton o una Monica Bellucci non conti nulla, se non sei una straf*** che si divide fra estetista e parrucchiera e non vesti firmato da capo a piedi puoi anche andare a nasconderti. Se indossi abiti di taglia superiore alla 44 non sei neppure degna di andare a una festa…
Ma è proprio vero?
No! Ci sarà anche qualche orchidea raffinata e qualche rosa elegante e vellutata, in questo grande giardino…
Ma, vogliamo mettere, le [tag]violette[/tag]?
Oggi, presa dalle mille cose da fare ogni sabato, ripropongo una poesia che ho scritto nel 1998 per la festa della [tag]donna[/tag].
Che non deve essere solo l’otto marzo.
Buona lettura!

Volevo un mazzolino di violette

Un’orchidea? Troppo sofisticata.

Un mazzo di rose?

Pieno di spine.

Un grappolo di mimosa?

Pianta delicata: non regge il gelo dell’inverno.

Allora?

Ma sì, semplicemente… un mazzolino di violette.

Spontanee e resistenti,

coperte nel sottobosco, ogni primavera rispuntano caparbie

da sotto le foglie cuoriformi…

Non temono gelo e incuria,

vengono calpestate e ignorate.

Messe in un bicchiere (temono il cristallo…)

profumano la casa.

Violette sono le donne normali.

Mamme, sorelle, fidanzate, mogli, figlie…

Noi.