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“Baraca e rénghi” o “viziosa crapula”?

In cerca di un’ispirazione per un nuovo post, viaggiando nella blogosfera, oggi mi sono imbattuta nell’ultimo contributo di Mitì Vigliero, la Placida Signora diventata famosa, diversi anni fa, per il bestseller “Lo stupidario della maturità” . Sotto il titolo “Placidi perché si dice”, Mitì spiega il detto “Non c’è trippa per gatti”. Mi si è accesa subito la lampadina, pensando al modo di dire tutto riminese “baraca e rénghi” (forse per via di quel gatto che dovrebbe essere goloso anche di pesce, oltre che di trippa).

Ricordavo di aver letto qualcosa in un libro del mio amico Tiziano Arlotti. Veloce ricerca nello scaffale romagnolo. Eccolo: Tutta colpa del barbiere, Panozzo Editore2004”.

“Fare baracca” – scrive Tiziano – è un modo di dire tutto riminese che significa: incontrarsi in un luogo fra amici, lasciarsi andare ai piaceri del cibo e del vino, conversare giudicando tutto e tutti con ironia, cantare, suonare, ballare, raccontare barzellette.”

E per rafforzare l’idea, “baraca e rénghi” o “baraca s’al rénghi”. E’ interessante il fatto che queste battute si usino anche fra i giovani che di solito non parlano in dialetto, ma che lo sentono parlare dai genitori e dai nonni.

Spiega Arlotti: “L’aringa, come è noto, è un pesce che si mangiava diffusamente nel periodo invernale (meglio se accompagnata si chevli) e che si addiceva particolarmente alle baraccate: costava poco ed era particolarmente salata e quindi ‘aiutava’ a bere. Anche le acciughe e le anciò erano particolarmente accette nelle osterie, ed i più accaniti le toglievano dal barattolo e se le mangiavano senza neppure pulirle dalla salamoia: le sbattevamo contro una gamba del tavolino o della sedia (i più alticci sul tacco dello zoccolo o dell’anfibio).”

Dal medesimo scaffale romagnolo della mia libreria occhieggia pure il “Dizionario Romagnolo Ragionato” di Gianni Quondamatteo. Che non si smentisce: anche per l’aringa dà una descrizione
che diventa un piccolo trattato folclorico e antropologico.

Rénga: – ittiol. aringa. E’ il pesce più importante dell’alimentazione umana, per le enormi quantità annualmente immesse sul mercato. Il suo habitat sono i mari settentrionali. Lunga 20-30 cm., la rénga è il distintivo della miseria: “cun na rénga, e’ magnèva una faméja”, dicevano i vecchi con una strana forma d’orgoglio. E’ sottinteso che quella famiglia mangiava, in ultima analisi, del gran pane. La rénga è anche il distintivo dei riminesi, in contrapposto alle poveracce (puràzi) dei riccionesi ed alle grosse cipolle (zvulùn) dei santarcangiolesi. Barili di aringhe, e lanci di aringhe, hanno qualche volta punteggiato gli incontri e le sconfitte patite dai riminesi nel campo dello sport.

L’è dura la rénga!” o anche “L’é cativa la rénga!”: così si apostrofa, a mo’ di scherno, chi ha patito una sconfitta o una delusione.

E alla voce baraca scrive: bagordo, festino, allegra riunione conviviale, confusione. Annota il Panzini: ‘il mangiare di molte persone insieme senza sobrietà e per viziosa crapula’. “Fé baraca”: far festa, in compagnia d’amici, e dandoci dentro nel bere e nel mangiare.

“Viziosa crapula”? Boh… Chi glielo spiega, ai miei concittadini, che quando festeggiano a “baraca e rénghi” secondo qualcuno stanno viziosamente crapulando?

Cumé i walzer ad Bilòz: i finés in gnint

Curiosando senza meta, ieri ho scoperto su Youtube diversi spezzoni dei film di Fellini.

Confesso che ho passato qualche ora attaccata al computer a guardarmeli…

Ogni tanto, qualche flash su fatti, personaggi o luoghi riminesi che conosco anche senza i suggerimenti del regista. Di alcuni ho già fatto cenno in post precedenti (per questo ho da poco aggiunto nel blog una “categoria Fellini”).

Sono collegamenti che mi piacciono.

Continuo con l’aiuto del poeta e commediografo Guido Lucchini, che nel suo libro “Raconta Remin, raconta” (Pietroneno Capitani Editore 2004) ci fa conoscere Bilòz, immortalato in Amarcord (in questo trailer del film, al punto 2.40, al passaggio del Rex è quello che chiede agli altri “Com’è? Com’è?”)

Bilòz, disegno di Pier Antonio Costantini

Scrive Lucchini:

Bilòz era un suonatore ambulante di organetto, non vedente. Suonava così, senza alcuna logica musicale. Suonava ad orecchio ogni motivo e canzone che sentiva. Erano tradizionali i suoi walzer, perché i andeva a finì in gnint (andavano a finire in niente), tanto è vero che ogni affare non concluso o un amore finito nel nulla erano classificati come “i walzer ad Bilòz”.


Bilòz

E sunèva tal cantéini dla zità

e sunèva se su urganéin

che tnéva a tracòla.

Un sunè senza féin

du che pochi nòti strapazèdi

lis pardéva te vusè

cl’aveva atorna.

L’òcc ciùs, senza piò luce,

forse e durmiva,

forse l’arpasèva tla su meint

i solit pensir

al soliti sperenze,

che pu tòtt us n’andèva finì in gnint

cum’è i su valzer.

Suonava nelle cantine della città

suonava col suo organino

che teneva a tracolla.

Un suonare senza fine

dove poche note strapazzate

si perdevano nel vociare

che aveva attorno.

L’occhio chiuso, senza più luce,

forse dormiva,

forse ripassava nella sua mente

i soliti pensieri,

le solite speranze,

che poi tutto se ne andava a finire in niente

come i suoi valzer.

La balena della Barafonda. Quando il mare si colorò di rosso

Questa sera rispondo all’amico Gigi di Wikicity che mi ha chiesto se avessi notizie sullo spiaggiamento della balena avvenuto a San Giuliano Mare (o Barafonda) nel 1943, episodio descritto anche da Federico Fellini. Nel suo sito Gigi ha già inserito qualche riferimento, così come le notizie di altri spiaggiamenti di cetacei sulle spiagge riminesi.
Curiosa come sono, e stimolata dalla richiesta, ho ricordato di aver letto la storia raccontata da diversi autori locali e di avere del materiale nelle mie librerie.
In un libro di Benito Colonna (“La mia Rivabella”, edizioni Chiamami Città, 2000) intanto, ho trovato un paio di fotografie che provo a postare. C’è anche un bel racconto. So che anche Anna Rosa Balducci ha scritto della balena (da qui il nome del suo blog “Sto con le balene“).
Voglio però dare spazio alla versione raccontata da Guido Lucchini in “Barafonda. Storie di gente alla buona e versi in dialetto romagnolo” (Pietroneno Capitani Editore Rimini, 1996), che trascrivo qui di seguito.
Il capodoglio
Era l’aprile del 1943. La Barafonda si svegliò con una grande sorpresa.

Pino (Bignardi) nel recarsi come ogni mattina ancora buio ai suoi “cugòll” (reti da posta messe a circa 100 metri dalla riva), arrivato sul posto con il suo moscone a remi avvertì nelle vicinanze un sommesso sbuffare, come fosse una locomotiva sotto pressione e guardando dalla parte dove udiva questo “rumore” intravide una massa scura.

Una grossa gobba sporgeva dall’acqua; con una certa apprensione ed un po’ di timore addosso, si avvicinò con prudenza alla “cosa” constatando che si trattava di un grosso pesce. Allora, dando forza ai remi, si affrettò a riva.

Corse a casa e mentre s’impossessava di una “resta” (lunga corda per la pesca con la tratta) chiamò suo padre (“e’ Nin”) per metterlo al corrente della sua scoperta.

In poco tempo padre e figlio arrivarono sopra il grosso pesce e, mentre “e’Nin” teneva i remi del moscone, Pino si tuffò in acqua, legò la corda attorno alla coda del pesce per poi portarla a riva dove veniva legata ad una “stanga” (palo per la posa in mare dei cogolli). Con il fare del giorno arrivarono i primi curiosi.

La balena sulla spiaggia

In un baleno la notizia si sparse per tutta la Barafonda e, di conseguenza, per tutta Rimini. Già le Guardie di Finanza, avendo la caserma nelle vicinanze, erano sul posto. Arrivarono giornalisti, fotografi, autorità civili e militari, gente dalla città e dai paesi vicini come fiume in piena. Si decise di tirare a riva il pesce.

Si seppe poi trattarsi di un capodoglio arenatosi in questa zona chissà per quale ragione. Molta gente si “attaccò” alla corda (forse un centinaio di persone) ed al comando di qualcuno si cominciò a tirare.

Appena il grosso cetaceo si sentì tirare per la coda (fu calcolato del peso di 70-80 quintali, 12 metri di lunghezza), dette uno strattone rovesciando a terra tutti quanti. Si pensò allora ai buoi di Bastunè (Poni) che aveva la propria casa nelle vicinanze (l’attuale Centro Anziani Casa Colonica). Bastunè, poco dopo, era lì con due paia di buoi che vennero subito attaccati alla corda.

Anche questa volta, appena il capodoglio si sentì tirare per la coda, dette un’altra sventagliata trascinando a terra le povere bestie.

Il contadino si affrettò a riportarle subito nelle proprie stalle.

Intanto l’afflusso della gente aumentava.

Qualcuno improvvisò depositi di biciclette, accorsero venditori ambulanti di ogni genere. Ragnon (Roberto Conti), “s’la batèna” (con la battana, la vongolara), portava i curiosi (naturalmente a pagamento) a fare un giro attorno al capodoglio.

Insomma, un po’ tutti trovarono il modo di fare qualche soldo, all’infuori dei Bignardi, padre e figlio, che non presero una lira.

Poi arrivò il colpo di genio (forse della Capitaneria o forse della Finanza). Insomma, si pensò di uccidere la bestia, piuttosto che pensare di cercare di trascinarla al largo, magari con un barcone a motore.

Così si fece intervenire l’Esercito.

Con una mitragliatrice piazzata a prua di una barca si giustiziò il povero cetaceo che forse non chiedeva altro che la sua libertà verso il grande mare.

Durante l’esecuzione il capodoglio impennò la grande coda in alto, come triste sventolio di una funesta bandiera.

Il mare cominciò a tingersi di rosso.

Una macchia sempre più grande dal molo arrivava sino allo scaricatore del Marecchia. La gente rabbrividì nel vedere il grosso cetaceo divincolarsi, rotolarsi, con la coda in alto durante lo spasimo della morte, e tutto finché la mitraglia tacque.

La gente se ne andò a testa bassa.

I giorni che seguirono non ebbero storia.

la balena sulla spiaggia

Il capodoglio, trascinato a riva, andò subito in putrefazione gonfiandosi sino a diventar circa il doppio.

Un puzzo nauseante, trasportato dalla brezza del mare, entrava in tutte le case della Barafonda. La carcassa fu venduta ad un certo Malatesta per farne sapone.

Intanto che veniva squartato quasi tutte le donne (essendo tempo di guerra e tutto era razionato), riuscirono a portare a casa il loro tocco di polpa.

Ne avrebbero fatto sapone per il bucato, senza pensare che, come conseguenza, lo sgradevole odore si sarebbe trasferito su lenzuoli, federe, tovaglie, fazzoletti.

Renato, poeta sempre giovane

In casa di Cristella, questa sera, un po’ di sano romanticismo con “zio Renato” (al secolo Renato Piccioni), poeta riminese che ha superato la soglia degli ottanta con piglio da ragazzino.
Autore di diverse pubblicazioni in prosa e in versi, da sempre molto attivo nell’organizzazione di eventi culturali ed artistici, Piccioni è stato attore di teatro nonché presentatore televisivo e radiofonico.

E’ presidente dell’Accademia Culturale Le Tre Castella di San Marino.
Arricchisco questo mio blog con una delle più belle poesie d’amore uscite dalla sua penna.

Perché parole?

Perché parole

se una carezza parla per me.

Perché parole

se uno sguardo parla per me.

Perché parole

se un bacio parla per me.

Ecco allora nel silenzio

il mio guardarti che dice t’amo,

il mio bacio tenero per dirti che ti amo,

una carezza come poche, dolce,

per dirti che ti amo.

Poi lo griderò al mondo,

alle stelle ed al sole,

alla foresta ed al deserto,

agli oceani ed alle montagne,

perché tutti sappiano

che t’amo fino alla follia

che solo l’amore dà

a chi dell’amore fa

suo scopo nella vita.

Renato Piccioni

O che bel mestiere, fare il favoliere…

Una, dieci, cento favole per Gramos, con l’augurio che la sua abbia un lieto fine.

La rete, si sa, porta lontano. Entri in un sito (o in un blog) che ti invita ad accedere ad un altro, che ti linka a destra, che ti rimanda a sinistra, sù, giù, di là, di qua.

Insomma, i navigatori sanno da dove salpano, ma mai dove approdano.

E’ capitato così: non so più per quale strada, ma un mesetto fa sono arrivata al blog Balene Bianche di Sabrina Campolongo. Mi è risultata simpatica già per le prime righe della sua presentazione (“Scrivo e vivo. O vivo e scrivo. Vale la proprietà commutativa. Una cosa non esclude l’altra.”). Sabrina ha avuto l’idea di aiutare Gramos, un ragazzino kosovaro di 12 anni che per una grave malattia ha bisogno di costosissime cure, regalandogli delle favole. Non libri già confezionati (che sarebbe così facile e veloce!), ma storie nostre, scritte per lui.

I blogger hanno risposto con entusiasmo, me compresa.

A dire il vero, ho adattato una favola già pronta, ancora inedita, che avevo scritto per l’Istituto Oncologico Romagnolo e letto ai bambini riminesi nella piazza centrale della città mentre vestivo i caldi panni della Befana.

“La Befana e la coperta che scioglie il ghiaccio”, che in versione originale potete leggere qui (nella sezione Libri di Cristella.it) insieme ad alcune altre favole scelte, è stata ritenuta adatta dalla giuria a venire pubblicata in un volume che sarà venduto in tutta Italia. I proventi serviranno ad aiutare Gramos.

La notizia della mia “vittoria” è arrivata via mail lunedì scorso, in una giornata funestata da temporali e tempeste, dove il sole che di solito brilla sul regno di Regina Cristella era coperto da nuvoloni neri.

Ecco, come mi è capitato spesso, nei momenti più tristi arriva qualcosa che non aspettavo (una notizia, una persona, un sorriso), che soffia via le nuvole in un battibaleno… Ancora una volta, forse, il mio Angelo Custode (mamma Pierina) ha manovrato i suoi invisibili fili.

Così, la bella Sabrina, il piccolo Gramos, gli altri scrittori scelti (anche famosi, eh! guardate qui la lista…) entrano di diritto nella “favola di Cristella”. 

Dove la parola “fine”, volutamente, non è stata scritta.

Quando il libro sarà pubblicato, lo farò sapere via blog. Dovrà partire una nuova catena fra gli amici di Cristella e di Gramos.

A m’arcmand!