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Si alza la nebbia e qualcosa è cambiato…

U j è na nèbia ch’l’as taja s’e’ curtèl (c’è una nebbia che si taglia col coltello).

Quante volte ho sentito questa frase, in casa mia o in giro per la Romagna! La nebbia di questi ultimi giorni, però, era da un pezzo che non la vedevamo. Quasi quasi ce n’eravamo dimenticati.

Ricordate la scena di Amarcord, col nonno di Titta che si perde nella nebbia e non s’accorge di trovarsi invece proprio di fronte a casa?

Ecco, in questi giorni Rimini è così come l’ha fotografata Fellini in quel quadro ovattato: colori sfumati, movimenti lenti, suoni lontani.

Da casa mia, specialmente verso sera e di notte, con la nebbia si sente il segnale del faro. Un fischio quasi familiare, che arriva di tanto in tanto. Questo che sento oggi proviene dal porto di Rimini. Del tutto simile a quello che sentivo nelle mie notti di ragazza, a Gatteo a Mare, proveniente però dal molo di Cesenatico. Sono passati venticinque anni, ho cambiato provincia di residenza, ma sempre “marinara” rimango.

Sabato mattina la coltre nebbiosa ha contribuito a coprire, ma solo per un paio d’ore, il disastro che stava avvenendo di fronte alla mia finestra e che sta cambiando la fisionomia di Viserba.

Non si vedeva nulla, ma si sentiva il rumore delle ruspe che sradicavano gli alberi e i rovi della vasta area incolta situata a monte della via Sacramora (la cosiddetta “falesia”), di fronte al polo scolastico.

A dire il vero la sorta di giungla che si era creata in decenni di abbandono non era il massimo: fino ad una ventina d’anni fa si riusciva ad inoltrarsi nei piccoli sentieri, fra i rovi, per raggiungere un gruppo di ciliegi, ormai inselvatichiti, che comunque regalavano i loro frutti a chiunque avesse il coraggio di arrampicarsi. Dalle fotografie prese dal satellite si riconoscono anche le stradine tracciate dai giovani che venivano a divertirsi con le loro moto da cross. E qui ricordo perfettamente l’epoca – quindici/venti anni fa – perché questi matti arrivavano a sgassare al massimo dei decibel proprio nella curva sotto alla mia camera da letto. Puntuali come orologi, svizzeri: all’ora del sonnellino delle mie bimbe e della sottoscritta.

Quindi ho pochi rimpianti sia per la giungla, sia per le moto. E poi, a dir la verità, sono sempre stata terrorizzata dall’idea delle bisce e dei topi che immaginavo nascondersi fra le erbacce e i rovi che vedevo di là dal mio cortile.

Però i rumori secchi e sinistri delle piante spezzate, che mi giungevano dalla nebbia, sabato mattina m’hanno fatto rabbrividire. Una strana sensazione, pensando “fa più rumore un albero che cade, di una foresta che cresce”.

Verso mezzogiorno la nebbia s’è poi alzata, come un sipario. E la prospettiva che mi era familiare da sempre era totalmente cambiata. i campi puliti, letteralmente rasati, fanno ora allargare lo sguardo fino alle case vicine e alla strada, prima nascoste.

Mi dovrò abituare: i lavori per la nuova strada e la grande rotonda sono già in fase avanzata e stanno procedendo velocemente.

Mi sa tanto che fra un po’, col traffico che arriverà, rimpiangerò i ragazzini che venivano a fare motocross sotto alle mie finestre…

Non rimpiangerò di certo la giungla, anche se una domanda mi sorge spontanea: ma con tutto questo sbancamento di terra e la distruzione delle piante, dove si saranno rifugiate le bisce e i topi?

Brrr… io in cantina mica ci torno!

Sabbie mobili a Viserbella. Tra storia e leggenda

Qualche giorno fa un giovane amico viserbese, Gabriele Bernardi, mi ha inviato una bella fotografia, vecchia di almeno sessant’anni. “Forse ti può interessare, Cristina…”

Il ragazzo mi conosce bene! E probabilmente ha anche letto uno dei primi post di cristella.it, quando scrissi delle sabbie mobili di Viserbella.

Sì, giusto per non farci mancare niente: qui da noi c’è un sito, chiamato “E’ Sourcioun”, dove fino a qualche decennio fa c’erano le vere ed uniche sabbie mobili riminesi.

Un po’ storia, un po’ leggenda.

Di certo, secondo il racconto dei più anziani, il fatto che la sorgente di acqua dolce denominata “E’Sourcion” è riaffiorata in mare e attualmente è “imbrigliata” tramite un tubo che guarda verso il largo. Acqua dolce sprecata, verrebbe da dire…

Comunque, per chi ama le piccole storie del territorio, ecco quella delle sabbie mobili di Viserbella (con l’aggiunta di un pizzico di leggenda, probabilmente).

Sourcioun - Viserbella
La storia sotto le sabbie mobili

(mio articolo pubblicato su Il Resto del Carlino il 23 febbraio 1999)


La storia di Viserba è indissolubilmente legata all’acqua che, fresca e purissima, è sempre sgorgata dalle numerose sorgenti (la più nota è quella chiamata Sacramora). Fino agli anni Sessanta c’era addirittura un posto, sulla spiaggia, dove l’acqua che sgorgava abbondantemente dava vita alle sabbie mobili. “E’ Sourcion”, così si chiamava (molto probabilmente dal francese “sorgente”). Il professor Enea Bernardi, scomparso nel dicembre 1998, aveva dedicato alle sabbie mobili viserbesi alcune pagine del suo libro “Storie su due piedi”. Iniziava ricordando i racconti di “Maròz ad Bilet”, un personaggio affabulatore che ai tempi dell’infanzia lo affascinava (si parla degli anni Trenta).
Ecco cosa narrava Maròz. “A un centinaio di metri dalla battigia, in una bassura fra le dune, gorgogliava un’acqua sorgiva. Il verde palustre nascondeva le sabbie mobili che, ricordava spesso il mio nonno, avevano ingoiato un uomo insieme al carro e ai buoi. In un pomeriggio di novembre, uno di quelli in cui l’aria tersa del garbino fa apparire le colline più vicine al mare, un contadino di Castellabate alla guida di un baroccio agricolo a due ruote trainato dai suoi buoi si dirigeva alla marina. Nessuno ha mai saputo bene il motivo di questo viaggio. I vecchi ricordano che in quel pomeriggio il vento girò all’improvviso: spirò rigido dal mare che sparì nel caligo. Il sole si offuscò, fitti banchi di nebbia scivolarono sulla marina e ovattarono forme e suoni. Quella sera non si vedeva niente e la gente si tappò in casa, rinunciando all’osteria per la paura di smarrirsi. Venne la mattina, ma il contadino non aveva fatto ritorno a casa. Lo cercarono da tutte le parti inutilmente. Di lui, del carro e dei suoi buoi non si ebbe mai più notizia. Certi cacciatori che nella notte erano appostati nei capanni da quelle parti, dissero di aver udito dei suoni strani e di aver visto sul far del giorno le impronte ancora fresche degli zoccoli bovini e dei solchi delle ruote che terminavano alle sabbie mobili. Verso la metà dell’Ottocento sorsero altre case, poco più alte di capanni, nelle adiacenze del mare. Appartenevano ai coloni che avevano imparato a vivere di pesca e costruirono il primo nucleo del paese. La zona delle sabbie mobili – riferivano sempre i vecchi – fu circondata da un parapetto di cemento a forma di cerchio.”
“E’ Sourcion” faceva paura, tanto che le mamme proibivano ai bambini di allontanarsi fino a quel luogo pericoloso. Molti, comunque, in scorribande avventurose provavano a esplorarlo, come racconta lo stesso Bernardi. “Legati tutti insieme a una lunga corda sottratta ai marinai, mandavamo uno di noi, tirato a sorte, verso il centro delle sabbie mobili. Nonostante i reiterati tentativi spericolati, nessuno di noi ragazzi riuscì mai ad arrivare al centro: man mano che si avanzava, si sentiva una forza invincibile che succhiava verso il basso, i piedi annaspavano fasciati dalla sabbia inconsistente. La sensazione era di precipitare in un vuoto senza fine, come negli incubi dei sogni. La guerra distrusse anche a Viserba case e memorie. I soldati si accamparono intorno a ‘E’ Sourcion’, scaricandogli addosso rifiuti e macerie. Iniziò così la sua agonia. Negli anni del dopoguerra lo vidi boccheggiare perché non riusciva più a respirare e a succhiare. Erano rimaste le polle centrali, quelle che noi ragazzi non avevamo mai osato profanare. Il colpo di grazia definitivo gli fu dato quando fu riempito con colate di cemento e il grande anello fu abbattuto, per lasciare il posto a una spiaggia piatta e sbiadita. Dopo un po’ ‘E’ Sourcion’ s’è preso una piccola rivincita: è rispuntato a un centinaio di metri, verso il mare, sotto forma di una piscina d’acqua fresca e chiara che si allargava sulla spiaggia.”

Stanno lavorando per noi

Se qualcuno dei tanti turisti che durante l’estate frequentano il litorale romagnolo pensavano che in inverno qua si dorma sugli allori, dovrebbe venire a fare un giro dalle parti di Viserba in questo periodo.

Nella fascia litoranea compresa fra i bagni 33 e 38, immediatamente a sud del porticciolo turistico, da qualche giorno alcune ruspe stanno lavorando senza sosta per… rivoltare e “lavare” la sabbia.

le ruspe che

Sembra strano?

Non è certo la prima volta e non si fa solo qui. A livello sperimentale un intervento simile venne effettuato un paio d’anni fa in un altro punto della riviera riminese. Con successo, a quanto pare.

Quindi a Viserba fino a tutto marzo una fetta di battigia (fuori e dentro l’acqua) verrà grattata, rivoltata e ossigenata. Si otterrà così un’accelerazione dell’ossidazione dei materiali organici depositati, cioè una ripulitura che restituirà ai bagnini (e ai turisti-bagnanti) uno spesso strato di sabbia “ringiovanita”.

L’augurio dei numerosi cittadini presenti all’assemblea pubblica di ieri sera con l’assessore all’Ambiente del Comune, Andrea Zanzini, è che interventi come questo non restino isolati, ma che si possano ripetere anche in altre zone del nostro litorale.

Speriamo…

La balena della Barafonda. Quando il mare si colorò di rosso

Questa sera rispondo all’amico Gigi di Wikicity che mi ha chiesto se avessi notizie sullo spiaggiamento della balena avvenuto a San Giuliano Mare (o Barafonda) nel 1943, episodio descritto anche da Federico Fellini. Nel suo sito Gigi ha già inserito qualche riferimento, così come le notizie di altri spiaggiamenti di cetacei sulle spiagge riminesi.
Curiosa come sono, e stimolata dalla richiesta, ho ricordato di aver letto la storia raccontata da diversi autori locali e di avere del materiale nelle mie librerie.
In un libro di Benito Colonna (“La mia Rivabella”, edizioni Chiamami Città, 2000) intanto, ho trovato un paio di fotografie che provo a postare. C’è anche un bel racconto. So che anche Anna Rosa Balducci ha scritto della balena (da qui il nome del suo blog “Sto con le balene“).
Voglio però dare spazio alla versione raccontata da Guido Lucchini in “Barafonda. Storie di gente alla buona e versi in dialetto romagnolo” (Pietroneno Capitani Editore Rimini, 1996), che trascrivo qui di seguito.
Il capodoglio
Era l’aprile del 1943. La Barafonda si svegliò con una grande sorpresa.

Pino (Bignardi) nel recarsi come ogni mattina ancora buio ai suoi “cugòll” (reti da posta messe a circa 100 metri dalla riva), arrivato sul posto con il suo moscone a remi avvertì nelle vicinanze un sommesso sbuffare, come fosse una locomotiva sotto pressione e guardando dalla parte dove udiva questo “rumore” intravide una massa scura.

Una grossa gobba sporgeva dall’acqua; con una certa apprensione ed un po’ di timore addosso, si avvicinò con prudenza alla “cosa” constatando che si trattava di un grosso pesce. Allora, dando forza ai remi, si affrettò a riva.

Corse a casa e mentre s’impossessava di una “resta” (lunga corda per la pesca con la tratta) chiamò suo padre (“e’ Nin”) per metterlo al corrente della sua scoperta.

In poco tempo padre e figlio arrivarono sopra il grosso pesce e, mentre “e’Nin” teneva i remi del moscone, Pino si tuffò in acqua, legò la corda attorno alla coda del pesce per poi portarla a riva dove veniva legata ad una “stanga” (palo per la posa in mare dei cogolli). Con il fare del giorno arrivarono i primi curiosi.

La balena sulla spiaggia

In un baleno la notizia si sparse per tutta la Barafonda e, di conseguenza, per tutta Rimini. Già le Guardie di Finanza, avendo la caserma nelle vicinanze, erano sul posto. Arrivarono giornalisti, fotografi, autorità civili e militari, gente dalla città e dai paesi vicini come fiume in piena. Si decise di tirare a riva il pesce.

Si seppe poi trattarsi di un capodoglio arenatosi in questa zona chissà per quale ragione. Molta gente si “attaccò” alla corda (forse un centinaio di persone) ed al comando di qualcuno si cominciò a tirare.

Appena il grosso cetaceo si sentì tirare per la coda (fu calcolato del peso di 70-80 quintali, 12 metri di lunghezza), dette uno strattone rovesciando a terra tutti quanti. Si pensò allora ai buoi di Bastunè (Poni) che aveva la propria casa nelle vicinanze (l’attuale Centro Anziani Casa Colonica). Bastunè, poco dopo, era lì con due paia di buoi che vennero subito attaccati alla corda.

Anche questa volta, appena il capodoglio si sentì tirare per la coda, dette un’altra sventagliata trascinando a terra le povere bestie.

Il contadino si affrettò a riportarle subito nelle proprie stalle.

Intanto l’afflusso della gente aumentava.

Qualcuno improvvisò depositi di biciclette, accorsero venditori ambulanti di ogni genere. Ragnon (Roberto Conti), “s’la batèna” (con la battana, la vongolara), portava i curiosi (naturalmente a pagamento) a fare un giro attorno al capodoglio.

Insomma, un po’ tutti trovarono il modo di fare qualche soldo, all’infuori dei Bignardi, padre e figlio, che non presero una lira.

Poi arrivò il colpo di genio (forse della Capitaneria o forse della Finanza). Insomma, si pensò di uccidere la bestia, piuttosto che pensare di cercare di trascinarla al largo, magari con un barcone a motore.

Così si fece intervenire l’Esercito.

Con una mitragliatrice piazzata a prua di una barca si giustiziò il povero cetaceo che forse non chiedeva altro che la sua libertà verso il grande mare.

Durante l’esecuzione il capodoglio impennò la grande coda in alto, come triste sventolio di una funesta bandiera.

Il mare cominciò a tingersi di rosso.

Una macchia sempre più grande dal molo arrivava sino allo scaricatore del Marecchia. La gente rabbrividì nel vedere il grosso cetaceo divincolarsi, rotolarsi, con la coda in alto durante lo spasimo della morte, e tutto finché la mitraglia tacque.

La gente se ne andò a testa bassa.

I giorni che seguirono non ebbero storia.

la balena sulla spiaggia

Il capodoglio, trascinato a riva, andò subito in putrefazione gonfiandosi sino a diventar circa il doppio.

Un puzzo nauseante, trasportato dalla brezza del mare, entrava in tutte le case della Barafonda. La carcassa fu venduta ad un certo Malatesta per farne sapone.

Intanto che veniva squartato quasi tutte le donne (essendo tempo di guerra e tutto era razionato), riuscirono a portare a casa il loro tocco di polpa.

Ne avrebbero fatto sapone per il bucato, senza pensare che, come conseguenza, lo sgradevole odore si sarebbe trasferito su lenzuoli, federe, tovaglie, fazzoletti.

La vera piada sfogliata riminese: Malvina docet

Michele Marziani, esperto di cibi non solo romagnoli, nel suo libro La cucina riminese tra terra e mare” dice di lei: “Tipica dell’area di Rimini e Riccione, è un’ode allo strutto, un inno al palato. Bella, grande, ricca di strutto, è cosa per golosoni e per braccia robuste. Tirarla col matterello non è semplice, ma il risultato è di quelli da grandi occasioni.”
Ma cosa sarà mai questo oggetto del mistero, inno del palato da riservare ai giorni di festa?

Si tratta della piada sfogliata riminese, ormai introvabile se non in qualche casa dove c’è ancora una nonna di buona volontà e di ottima memoria.
Una risorsa così preziosa non manca di certo, nella reggia di Cristella.
Ecco allora giunto il momento di presentare la signora Malvina, la mia suocera riminese doc, nonna sempre attiva e depositaria delle ricette tramandatele negli anni. Le sono state maestre sua nonna Elisa e sua suocera Rosa, arzdore nate verso il 1880-1890.
Quando nonna Malvina decide di regalare la piada sfogliata è festa, in famiglia: non è mica roba di tutti i giorni! Al massimo a Carnevale e forse un’altra volta o due durante l’anno. Perché la preparazione richiede almeno una mezza giornata di lavoro, tanta pazienza e una manualità che ormai s’è perduta.
Dopo lo stretto corteggiamento di nuora e nipote, la nonna ha ceduto e sorride davanti alla videocamera mentre spiega i vari passaggi della ricetta. Fiera di passare i suoi saperi alle due generazioni più giovani della famiglia.
La protagonista di questa sinergia fra donne è quindi lei, l’arzdora Malvina.
Fondamentale, però, anche il ruolo di Dora, la nipote esperta webmaster e studentessa di nuovi media alla Facoltà di Scienze di Tor Vergata. Così come fatto con la prima ricetta (ricordate gli strozzapreti?) che ad oggi è stata visualizzata da quasi 900 persone, Dora partecipa al progetto come regista, filmando il tutto e occupandosi del successivo montaggio e della destinazione finale su Youtube. Nel mezzo, come il prezzemolo, Cristella, nuora di Malvina e mamma di Dora, anello di congiunzione con idea e testi.
Mentre la nonna prepara e spiega, vengono fuori i ricordi di ragazza.
“Sapete? – racconta – Quando mia suocera Rosa negli anni Venti era la cuoca di Villa Ombrosa, la proprietaria, la contessa Gemmamaria, le ordinava le piade sfogliate ogni volta che aveva ospiti con cui voleva fare bella figura.”
Come succede con la preparazione dei cappelletti alla vigilia di Natale, anche con le piade sfogliate la preparazione diventa un rito che unisce buona parte della famiglia. Non si può affrontare l’impresa da sole: bisogna essere almeno in due o tre. Ad ognuna il suo ruolo, magari scambiandolo ogni tanto. Una tira la sfoglia, l’altra l’arrotola e la tira un’altra volta, la terza la cuoce sul testo.
Alla fine, il risultato di questo lavoro d’équipe non può che essere gustoso, a favore di familiari ed amici. Sì, perché oltre che inno alla golosità, come dice Marziani, la piada sfogliata è fatta per la convivialità, per essere mangiata in allegre tavolate riscaldate da buon vino.

Il video, parola di Cristella, stimola le papille gustative. Questo, almeno, è quanto è successo a me in fase di doppiaggio. Sarà perché la visione di tutte quelle piade impilate sul tavolo della cucina mi ha ricordato il profumo di quel giorno d’estate in cui le abbiamo gustate…
Insomma, nel video si vede come si fa e qui di seguito vi scrivo la ricetta. Gli strumenti ora li avete pure voi. Se riuscirete a copiare e cenerete con qualche piada sfogliata vuol dire che siete veramente bravi.
Io, fintanto che ho la Malvina, me la tengo ben stretta. Invidiatemi pure.
Al massimo, potreste provare a farvi invitare direttamente da lei, per la prossima “piadata” di famiglia.
Buon appetito! Ci rivediamo su Youtube alla prossima ricetta romagnola.
Ricetta della piada sfogliata della signora Malvina
Ingredienti per circa 25 piade
1 kg di farina
½ bicchiere di olio extravergine di oliva
1 bicchiere di acqua tiepida
2 cucchiai di sale

1 uovo
strutto di maiale
Preparazione
Impastare farina, uovo, olio, sale, acqua fino ad ottenere un impasto morbido. Farne delle palline della grossezza di un mandarino. Lasciarle riposare, coperte da un panno, per almeno un’ora.
Passato questo tempo tirare le palline col matterello aiutandosi con altro olio. Devono diventare molto sottili. Spalmare ogni piada con lo strutto e arrotolarla su se stessa per ottenerne un rotolo che si chiuderà a forma di chiocciolina. Lasciarla riposare ancora (un’altra ora come minimo), affinché lo strutto, sciogliendosi, “sposi” l’impasto.
Ora è il momento della seconda tirata di matterello.
Anche questa volta ci si aiuta con l’olio, perché la piada deve diventare sottilissima, ancor meglio se con qualche buco.
Una volta pronta, si stacca ogni piada dal tagliere prendendola con le due mani e si posa con delicatezza sul testo (la piastra di ghisa o di terracotta che si usa in Romagna per cuocere la piadina), che deve essere rovente.
Si rigira un paio di volte aiutandosi con un grande coltello a lama piatta.
A differenza della piadina classica, questo tipo di piada durante la cottura non va punzecchiata.
La piada sfogliata è buona anche da sola, ma per una cena da non dimenticare andrebbe accompagnata con formaggi morbidi (tipo stracchino e squacquerone) e con affettati misti.
Obbligatorio, non solo consigliato, un buon vino. Sangiovese, naturalmente.
Buon appetito!