…le sue frecce possano andare veloci e lontano…

Di Principesse che volano volano sempre più lontano. Bacio bacio bacio.

Dorothy, prima “over the Rainbow” and now… on a “New Wave”.

in partenza da Bologna Airport

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I vostri figli non sono figli vostri.

 (di Kahlil Gibran)

E una donna che reggeva un bimbo al seno disse, Parlaci dei Figli.
E lui disse:
I vostri figli non sono figli vostri.
Sono i figli e le figlie della brama che la Vita ha di sé stessa.
Essi vengono attraverso voi ma non da voi,
e sebbene siano con voi non vi appartengono.
Potete donare loro il vostro amore ma non i vostri pensieri.
Poiché hanno pensieri loro propri.
Potete dare rifugio ai loro corpi ma non alle loro anime,
giacché le loro anime albergano nella casa di domani,
che voi non potete visitare neppure in sogno.
Potete tentare d’esser come loro, ma non di renderli
come voi siete.
Giacché la vita non indietreggia né s’attarda sul passato.
Voi siete gli archi dai quali i vostri figli,
viventi frecce, sono scoccati innanzi.
L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell’infinito,
e vi tende con la sua potenza affinché le sue frecce possano
andare veloci e lontano.
Sia gioioso il vostro tendervi nella mano dell’Arciere;
poiché se ama il dardo sfrecciante,
così ama l’arco che saldo rimane.

La nàiva ad Lello

La Nàiva (di Raffaello Baldini)

Pu l’à vòlt carnaséin, e l’è stè nàiva,

te préim dal fròffli grandi

cmè di straz, mòli fràidi, sbandunèdi,

agli arivéva ma tèra

e al cambiéva culòur, l’era tòtt’aqua.

Mo dop un po’ al piscòlli agli era férmi,

smerigliédi,

i sedéili dla piaza,

al lèttri blò dla Casa de Rispèrmi,

i cavalétt dla Bigia

ma i éural i ravièva a dvantè biènch,

Nello pr’andè te fòuran l’à sguilé.

La tachéva, mo cmè che la n nu n vléss,

la zénta la scapèva senza umbrèla.

Pu vérs al quatar l’aria la s’è mòsa,

ti véidar u s sintéa un furmigadézz,

u n’era fròffli, ormai l’era garlétt.

La avnéva zò, mo fétta, da céud i òcc,

la era sotta, sbrulèda, la raspèva,

la s’instichéva tal schèrpi, te cupètt,

la s’infiléva ti pòst dri ma la zénta.

Da Ganasa i scarghéva testa ‘d spuntéun

s’una bala a capocc cumpàgn di frè.

Mal Scalètti la Lèttra la rugéva:

stavòlta mò u n fa un créin!

…. continua…

 

La neve

Poi ha girato grecale, ed è stata neve, dapprincipio dei fiocchi grandi, come stracci, molli radici, dinoccolati, arrivavano a terra e cambiavano colore, erano tutt’acqua. Ma dopo un po’ le pozzanghere erano ferme, smerigliate,le panchine della piazza, le lettere blu della Cassa di Risparmio, i cavalletti della Bigia, agli orli cominciavano a diventare bianchi, Nello per andare al forno è scivolato. Attaccava,  ma come se non volesse, la gente usciva senza ombrello. Poi verso le quattro l’aria s’è mossa, ai vetri si sentiva un formicolio, non erano fiocchi, ormai erano chicchi. Veniva giù, ma fitta, da chiudere gli occhi, era asciutta, secca, raspava, si ficcava nelle scarpe, nel collo, s’infilava nei posti dietro la gente.  Da Ganasa scaricavano a testa bassa, con un sacco a cappuccio come i frati. Alle Scalette l’Elettra urlava: stavolta davvero ne fa una cesta!

Buona sera, sgnòr dutòur!

Una zirudella di oggi dedicata al dottor Iader Garavina, medico di famiglia a Gatteo a Mare, nonché sindaco di Gambettola (ispirata da Walter, Gigliola e gli altri amici “mangioni”).

 

Dialogo fra il dottore-sindaco e Walter, uno dei suoi affezionati mutuati di Gatteo a Mare

Buona séra, sgnòr dutòur, 

à so vnoù par c’la rizèta.

 

Entra pure caro mio! 

Ma che hai fatto, Santo Dio?

T-ci piò ròs d’un galinàz!

 

Mé a ne sò, sgnòr dutòur,

u’m è vnoù un mèl ad pènza,

che s’an s-ciòp pòc ui amènca.

 

Vieni qua sul mio lettino

e stenditi sul fianco.

Ma che panza, che gonfiore!

T’avevo detto riso in bianco!

 

E’ reis a l’ò magné,

ma u’n gné stè gnent da fè,

a l’ò fat s’è sug ad sèpia

e s’la cunsérva d’la mi moi.

E par sgond, c’la brèva dòna,

l’a m’à còt d’la panzètta

e tré pìdi tòndi tòndi,

c’um pè ancòura ad santéi l’udòur!

E par stè un po’ lizìr,

ò magnè du piat ad tréppa,

c’a l’ò sugnèda ènca stanòta.

 

Ma che hai fatto, disgraziato!

Dieta, dieta, avevo detto!

Col diabete non si scherza,

la pressione poi si alza!

 

Purtì pazìnzia, sgnòr dutòur.

S’ai vléiv fè, s’a sò un zucòun!

P’r’una vòlta, staséim a santéi,

vnéi a magné a chèsa mi!

A’gli abéti ai pensarém.

Staséira a vlém magnè tòt insén?

Gulmàz, almadìra o falàsc: combustibile a costo zero.

Si andava a garavlè anche sulla spiaggia. Non grappoletti d’uva, né olive cadute in terra o spighe rimaste solitarie.

In questo caso si raccoglieva “e’ gulmàz“. Che, in quel di Gatteo a Mare, nei pressi della foce dello storico fiume Rubicone, si chiamava piuttosto “falàsc” (come mi segnala il giovane ricercatore Andrea Pari).

In ogni caso, si tratta del medesimo materiale, tuttora disponibile… a costo zero.

Curiosi? Ecco la descrizione di gulmàz (dal Dizionario Romagnolo Ragionato di Gianni Quondamatteo):

– mar. come falòpa, cioè il materiale che il mare getta e deposita sulla spiaggia, specie dopo una grossa burrasca. Sono canne, rami, detriti di legno che la povera gente raccoglie e mette ad asciugare , per usare poi come combustibile. Il tutto ha anche il nome di gramegna.  A Riccione dicono almadìra.

 

Quando si andava “a la garavèla”. Torneranno quei tempi?

A garavlémi…”

Così rispose con naturalezza,  qualche tempo fa, un’arzdòra quasi centenaria alla mia domanda su come, negli anni venti-trenta del secolo scorso, riuscisse a portare avanti la sua famiglia nonostante la situazione economica piuttosto problematica.

Vedova in giovane età, rimase sola con cinque figli maschi, il più piccolo dei quali non andava ancora a scuola.

Per rendere l’idea, la sua misera casa “sò m e’ fiòm” (su per il fiume, per la cronaca: lo storico fiume Rubicone) aveva il “pavimento” in terra battuta.

Avèmi ‘na miséria che m’i sòrg ch’i antrèva u i vnéiva i guzlòun ma i òcc” (avevamo una miseria che ai topi che entravano venivano i goccioloni agli occhi). Tradotto:  anche loro piangevano perché non c’era alcunché da mangiare.

Quindi, questa signora tirava avanti andando…  “a la garàvèla”.

Tutto il giorno (e forse anche di notte, magari se l’azione non era del tutto… approvata) “a garavlè” nei campi degli altri.

A racimolare, raggranellare, così come insegna anche l’etimologia di questi ultimi due vocaboli detti in lingua italiana.

Racémolo e racìmolo: forma diminutiva del latino racèmus, grappolo d’uva. Ogni ciocchetto d’uva di cui si compone il grappolo, ed anche un grappoletto di pochi racimoli.

Racimolare: cogliere i racimoli e, fig. adunare a poco a poco.

Raggranellare: unire i granelli dispersi, mettere insieme a poco a poco, quasi granello a granello. 

La Bibbia stessa raccomanda: “Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare: sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova.” (Deuteronomio – 24, 21).

E comunque, sempre, quando sento la parola “garavlè”, ma detta nella mia lingua madre, mi torna nella mente quella vedova, una donna romagnola forte, come tante.

Ed ecco cosa scrive in proposito Gianni Quondamatteo nel suo Dizionario Romagnolo Ragionato:

Garavlè: – racimolare, spigolare, raccogliere, guadagnare. S’èt garavlè òz? (Cos’hai raggranellato oggi?,  a un poveraccio che vive alla bell’e meglio  raccogliendo quello che può). Anche dopo un festino, o per un affare fatto andare in porto. Pure in senso ironico o confidenziale.

Morale della favola: tira una brutta aria… Si dovrà tornare a “garavlè“?