Se San Michele si bagna le ali…

Sugli usi e pregiudizi del giorno di San Michele

da “Agenda storica 1999”, a cura di Maurizio Matteini Palmerini (Pietroneno Capitani Editore, Rimini).

Le ore del giorno, in questo periodo, cominciano vistosamente a diminuire, e, nella giornata di San Michele, tradizionalmente, cessava ovunque l’usanza della merenda pomeridiana.

Questa usanza aveva accompagnato quotidianamente, dal mese di maggio,  tutti i lavori agricoli. La tradizione popolare riteneva che il tempo atmosferico del giorno della festività dell’Arcangelo Michele sarebbe durato fino a Natale, se non addirittura tutto l’inverno: se era freddo o pioveva, l’inverno sarebbe stato davvero rigido, ma se invece era una bella giornata si credeva che fino a Natale sarebbe stato bello.

Queste credenze sono state fissate anche in alcuni proverbi:

San Michel porta la brenda in zil

San Michele porta la merrenda in cielo

 

San Michìl quand l’è arivè

int l’invéran t’at sì cazè

Quando San Michele è arrivato

nell’inverno ti sei cacciato.

 

Quand San Michìl l’è arivé

la lòma t’è da impié.

Quando  San Michele è arrivato

devi accendere il lume.

 

Se sa’ Michìl u s’ bagna al j èl

e’ piov séna a Nadèl.

Se San Michele si bagna le ali

pioverà fino a Natale.

 

E’ dé ‘d San Michìl 

s’l è bon temp

i puret i sta aligrament

parché un inveran bon e vnirà

e de fred in s’murirà.

Il giorno di San Michele

se è bel tempo

i poveracci stanno allegri

perché un inverno buono verrà

e dal freddo non si morirà.

 

A Santarcangelo di Romagna, a due passi da qui, sono giorni di festa. La “Fiera degli uccelli”.

I òman i’n chènta piò

Tempi di pulizie e rivoluzioni di stanze, armadi e librerie, in casa. Come per magia saltano fuori dai cassetti ricordi fatti di libri, quaderni, foto e appunti vari.

Apro un bel quaderno a spirale con fogli decorati da farfalle e – sorpresa! –  nella prima pagina trovo la testimonianza, in dialetto, raccolta dalla voce della mia sorella maggiore, Teresa. Porta la data del 15 ottobre 2001.

La Flora che viene qui citata è la sorella della famosa soprano Lina Pagliughi. Le Pagliughi vivevano in una bella villetta in fondo a via Forlì, a Gatteo a Mare.

Teresa per anni è stata la loro sarta e in seguito le ha aiutate nei lavori di casa. Dopo la scomparsa di Lina, mia sorella ha seguito Flora con affetto assistendola per tutte le incombenze quotidiane rese difficili dall’età molto avanzata.

Mio babbo Martino per anni è stato il giardiniere delle Pagliughi. Lina amava molto le rose e il suo giardino, grazie a Martino-Panarèt, era un trionfo di colori e profumi.

Ma, ecco cosa mi ha raccontato Teresa a proposito di Flora.

I òman i’n chènta piò

T’al sé quel c’l’am gìva la Flora?

“I òman, Teresa, una vòlta i cantèva e i fis-cèva, quand i andèva par la strèda. Fòrt, dé e nòta. Adès, i stà tòt zét. Quand i camèina e i và in biciclèta, i à sèmpra un gran mòus. “

L’a’m racuntèva ‘sta stòria tòt i dé, ènca poc prima ad murì. E po’ l’a m gìva: “U i è stè sol un òm che e’ fis-cèva e e’ cantèva par la strèda quand ch’i iltar i avéva smés da un bèl pèz. L’éra e’ nòst pustéin. E’ faséiva un malàn, quand l’arivèva! U’n avéva bsògn ad busè a la pòrta: u’s santéiva arivé ch’l’éra ancòura lazò vaiòun. E pù, t’a l sé, Teresa? E’ nòst pustéin l’éra un gran poeta. Pénsa che dop c’u’m avéva dè la posta, e’ giva: ‘Salutém la Bina, la Lina e la Paolina…’ Tòt al vòlti, l’éra un salùt s’la rima!”

E’ po’?

“E dòp e’ partiva ancòura s’la su biciclèta e la su bursòuna pìna. E e’ fis-cèva. L’è stè lò, l’ultam òm ch’ò santì fis-cè par la strèda: e’ pustéin cantaréin.”

Gli uomini non cantano più

Lo sai cosa mi diceva la Flora?

“Gli uomini non cantano più, Teresa. Una volta cantavano e fischiavano, quando andavano per strada. Forte, giorno e notte. Adesso stanno tutti zitti. Quando camminano e vanno in bicicletta, hanno sempre un gram muso lungo.”

La Flora mi raccontava questa storia tutti i  giorni, anche poco prima di morire. E poi mi diceva: “C’è stato solo un uomo che fischiava e cantava per strada quando gli altri avevano smesso da un bel pezzo. Era il nostro postino. Faceva un baccano, quando arrivava! Non aveva bisogno di bussare alla porta: si sentiva arrivare che era ancora laggiù. E poi, lo sai, Teresa? Il nostro postino era un gran poeta. Pensa che dopo che mi aveva consegnato la posta, diceva: ‘Mi saluti la Bina, la Lina e la Paolina’. Tutte le volte, un saluto in rima.”

E poi?

“E dopo partiva. Ancora con la sua bicicletta e la sua borsona piena. E fischiava. E’ stato lui, l’ultimo uomo che ho sentito fischiare per strada. Lui, il nostro postino canterino.”

25 settembre 1944. Il pleuvait sans cesse, ce jour-là…

Sì, è vero: bisogna guardare al futuro, basta con queste storie del passato, del “si stava meglio quando si stava peggio…”

Ma certi avvenimenti del passato non vanno dimenticati. E’ dovere civile (e del cuore) volgere lo sguardo indietro, ogni tanto.

Nel 1944, in questi giorni, il territorio a Nord del fiume Marecchia era campo di battaglia. Il “fronte”, raccontato così tante volte dai miei genitori e dai loro coetanei, si fermò a lungo, anche a causa delle continue piogge che avevano reso i campi simili a pantani. Si pensi che Rimini fu liberata il 21 settembre e Gambettola, una ventina di chilometri più a nord (il luogo dove s’è svolta la tragedia della mia famiglia), soltanto il 15 ottobre. Giorni e notti di sangue, morte, distruzione, terrore…

Come si può non ricordare e rendere omaggio a tutte le innocenti e ignare vittime civili?

Lo “devo” a mia madre e a mio padre, ma anche al nonno e agli zii che non ho mai conosciuto.

Lacrime e rocca: il filo di ricordi di mamma Maria

Da “Trama e ordito, mamme che tessono la vita” – 1999.  Continua a leggere

Allegro non troppo…

Parole parole parole… dedicate da Cristella al Re Consorte e proposte in una piccola pubblicazione, nonché declamate al microfono dall’autrice, sabato 15 settembre 2012 nell’ambito di “Banchintempo“, la seconda Giornata Nazionale delle Banche del Tempo che si è tenuta a Rimini.

Il tema era: il tempo nella poesia (e, in questo caso, nella vita di tutti i giorni, da oltre trent’anni).

“Allegro non troppo”

E’ danzando col pentagramma che oggi ti penso.

E canto la nostra sinfonia

dipinta a quattro mani

con pennelli trovati per strada.

Tempi e colori

prima grigi, poi brillanti.

In crescendo.

Adagio. Piano. Andante con moto.

Con te,

dal primo abbraccio dei vent’anni

danzo la vita sul minuetto.

Con passi scanditi

da ritmo mai mesto.

Più spesso molto marcato,

se non proprio tempestoso.

Poetico con delizia,

questo chiedo per domani.

Ancor meglio se allegro (non troppo, però).

 

 

 

 

 

 

 

 

Agli uraziòn de mi bà

“Cantilene e filastrocche – scrive Vittorio Tonelli nel suo libro ‘La veglia nella Romagna dei nonni‘ – entravano in certe preghiere, più ludiche che mistiche. E’ il caso di ricordare ‘L’urazion ad Sènta Cièra’, in un frammento da me appreso (dialettofono com’ero) sulle ginocchia materne:

L’urazion ad Sènta Cièra

banadet a chi l’impèra!

U l’impèra un peligren

che l’è sgnet a San Marten.

La su mama la i dé ‘na pena d’or

e e’ su fiol u n’l’ha avluta,

u l’ha buteta sovra una rora.

La rora la vulteva…

Tòtt è mond u si spianeva!

La filastrocca-preghiera, cantata come una ninnananna, costituiva una sorta di sonnifero per i piccoli. Le mamme lo sapevano e li invitavano ad andare in camera, anche se recalcitranti, non volendo correre il rischio di vederli stramazzare sull’arola calda e piuttosto bassa, rialzata com’era sul pavimento solo una ventina di centimetri.”

Leggendo queste pagine, a Cristella tornano in mente le filastrocche-preghiere del babbo, che ogni volta provocavano l’arrabbiatura della mamma. Peccato averne registrate solo alcune. Come queste, raccontate da Panarèt (Martino Muccioli) il 6 luglio 1996, all’epoca 79enne.

Domine subisco,

è passato e non l’ho visto.

E’ passato sotto il letto,

ha rubato il scaldaletto.

 

“Dire il Patèr”, significava “recitare il Rosario”, abitudine di ogni sera in tutte le famiglie, mentre le donne di casa facevano la calzetta. Ecco, allora:

Patér, nustèr,

una calzèta ad fèr,

una calzèta ad lèna,

e’ Patèr a l gém

stèlta stmèna.

 

L’incipit del “Requiem aeternam”, infine, per Panarèt diventava uno scherzoso:

Réchia materna, vècia sta ferma...

 

La vecchia che doveva stare ferma forse era la nonna? Chissà.

Nelle intenzioni, non c’era sicuramente irriverenza verso la religione: chissà se il Paradiso Panarèt se l’è guadagnato lo stesso?