Noci e mandorle per fave e piade dei morti

Era una notte, una notte di tregenda, i miei capelli ballavano la samba…
Iniziava così una canzone che cantavamo attorno al falò durante i campi scout per spaventarci a vicenda scherzando su di un argomento da brividi.
Parlare dei morti senza averne paura. Un po’ come accade nella notte della vigilia di Ognissanti, quando si pensava che i defunti tornassero per qualche ora a visitare i vivi.
Nelle varie regioni italiane le usanze, oltre che ai riti religiosi, sono legate alla casa (che si doveva pulire e mettere in ordine e dove si preparavano letti per gli “ospiti”) e al cibo (con tavole imbandite e la preparazione di specialità caratteristiche).
E poi ci sono tantissimi cibi tradizionali…
Per quanto riguarda Rimini, qui da noi è usanza preparare la Piada dei morti, un dolce che nonostante il nome non ha nulla a che fare con la piadina che tutti conoscono.
Si tratta di una focaccia dolce dalla forma rotonda: una base di pasta lievitata condita con uvetta e una copertura di frutta secca. Una specie di panettone schiacciato.

La ricetta? Esistono versioni leggermente diverse e pare che quella originale sia stata perduta insieme al suo depositario.
Altri dolcetti abbastanza semplici da preparare sono poi le Fave dei morti, di cui il maestro Pellegrino Artusi spiega origini e ricetta nel suo “La Scienza in cucina e l’Arte di Mangiar Bene”.

Copioincollo, augurando buona lettura e… buon appetito.

“Queste pastine sogliono farsi per la commemorazione dei morti e tengono luogo della fava baggiana, ossia d’orto, che si usa in questa occasione cotta nell’acqua coll’osso di prosciutto. Tale usanza deve avere la sua radice nell’antichità più remota poiché la fava si offeriva alle Parche, a Plutone e a Proserpina ed era celebre per le cerimonie superstiziose nelle quali si usava. Gli antichi Egizi si astenevano dal mangiarne, non la seminavano, né la toccavano colle mani, e i loro sacerdoti non osavano fissar lo sguardo sopra questo legume stimandolo cosa immonda. Le fave, e soprattutto quelle nere, erano considerate come una funebre offerta, poiché credevasi che in esse si rinchiudessero le anime dei morti, e che fossero somiglianti alle porte dell’inferno.
Nelle feste Lemurali si sputavano fave nere e si percuoteva nel tempo stesso un vaso di rame per cacciar via dalle case le ombre degli antenati, i Lemuri e gli Dei dell’inferno.
Festo pretende che sui fiori di questo legume siavi un segno lugubre e l’uso di offrire le fave ai morti fu una delle ragioni, a quanto si dice, per cui Pitagora ordinò a’ suoi discepoli di astenersene; un’altra ragione era per proibir loro di immischiarsi in affari di governo, facendosi con le fave lo scrutinio nelle elezioni.
Varie sono le maniere di fare le fave dolci; v’indicherò le seguenti: le due prime ricette sono da famiglia, la terza è più fine.
PRIMA RICETTA
Farina, grammi 200.
Zucchero, grammi 100.
Mandorle dolci, grammi 100.
Burro, grammi 30.
Uova, n. l.
Odore di scorza di limone, oppure di cannella, o d’acqua di fior d’arancio.
SECONDA RICETTA
Mandorle dolci, grammi 200.
Farina, grammi 100.
Zucchero, grammi 100.
Burro, grammi 30.
Uova, n. l.
Odore, come sopra.
TERZA RICETTA
Mandorle dolci, grammi 200.
Zucchero a velo, grammi 200.
Chiare d’uovo, n. 2.
Odore di scorza di limone o d’altro.
Per le due prime sbucciate le mandorle e pestatele collo zucchero alla grossezza di mezzo chicco di riso. Mettetele in mezzo alla farina insieme cogli altri ingredienti e formatene una pasta alquanto morbida con quel tanto di rosolio o d’acquavite che occorre. Poi riducetela a piccole pastine, in forma di una grossa fava, che risulteranno in numero di 60 o 70 per ogni ricetta. Disponetele in una teglia di rame unta prima col lardo o col burro e spolverizzata di farina; doratele coll’uovo. Cuocetele al forno o al forno da campagna, osservando che, essendo piccole, cuociono presto. Per la terza seccate le mandorle al sole o al fuoco e pestatele fini nel mortaio con le chiare d’uovo versate a poco per volta. Aggiungete per ultimo lo zucchero e mescolando con una mano impastatele. Dopo versate la pasta sulla spianatoia sopra a un velo sottilissimo di farina per poggiarla a guisa di un bastone rotondo, che dividerete in 40 parti o più per dar loro la forma di fave che cuocerete come le antecedenti.

La mia coperta multicolore

Favola scritta nel 2002, quando la vecchia lira lasciò il posto all’euro. Le monetine si raccoglievano per beneficienza: tanti spiccioli come piccole gocce che diventavano oceano…

A Rimini in questi giorni c’è un’iniziativa intitolata “La lana scalda il cuore”, a favore dell’associazione “Rompi il silenzio” che opera contro la violenza sulle donne. Che siano stati ispirati dalla mia favola?????
LaLana
La Befana e la coperta che scioglie il ghiaccio.
Era un venerdì diciassette quando Gertrude, la vecchia Strega del Nord, lanciò sul paese di Mercandé l’incantesimo peggiore che c’è: tutte le persone che incontravano il suo sguardo incominciavano subito a tremare e nel giro di poche ore si trasformavano in statue di ghiaccio.
Nessuno riuscì a scoprire il motivo della sua malvagità; qualcuno pensò ad una delusione d’amore, ricordando che Gertrude, in gioventù, era stata fidanzata con Merlino, che l’aveva poi lasciata per ritirarsi, disperato, in un eremo in cima alla montagna, in cerca di tranquillità.
Per un motivo o per l’altro, l’incantesimo fece molte vittime a Mercandé: si potevano ormai trovare ghiaccioli non solo nei bar e nei frigoriferi, ma agli angoli delle strade, nelle case, nelle scuole…
Invece che un cono “panna e cioccolato”, nelle gelaterie si poteva ordinare “maestre al pistacchio” e “postini stracciatelli”. Avrebbe anche potuto essere una situazione divertente, se non fosse che i poveretti presi di mira dalla Strega incominciarono a stufarsi del brutto scherzo, perché ormai il freddo non li lasciava mai.
Decisero così di lanciare un appello al mondo intero:
“Per favore, chi conosce l’antidoto contro tutto questo gelo, faccia qualcosa per noi!”
Furono i bambini del paese a darsi da fare per primi per salvare i loro compaesani.
Escogitarono subito un buon sistema per cercare notizie su come poter aiutare quei poveri ghiaccioli: in un bel pomeriggio di sole, mentre c’era l’arcobaleno, fecero partire dal cortile della scuola di Mercandé cinquecentocinquantacinquemila palloncini colorati dove avevano attaccato un biglietto che spiegava la faccenda. Scritto in duecentoventidue lingue, naturalmente, perché l’appello doveva arrivare al mondo intero.
Ed, infatti, nel giro di pochi giorni, aiutati dai quarantaquattro venti figli di Eolo, i palloncini giunsero dappertutto: in Africa e in Asia, a Bengasi e a Timbuktu, a Madrid e a Lisbona, a Calcutta e a Pechino, a Mosca e a Moscerino, a Shanghai e a Miramare.
Ovunque furono raccolti dai bambini del luogo, che capirono subito l’importanza del loro intervento.
Si indirono riunioni negli igloo, nelle case, nei palazzi, nelle capanne, nelle tende…
Ognuno aveva una sua soluzione da proporre e quando ciascun gruppo di bambini aveva individuato la migliore, la scriveva su di un biglietto e la rimandava al mittente, verso il paese di Mercandé, sempre con i soliti palloncini colorati.
Fu così che dopo una settimana, sulla piazza che era ormai trasformata in una pista di pattinaggio, planarono due messaggi.
Il primo biglietto era attaccato ad un palloncino arancione e veniva dalle montagne della Lombardia.
Lo raccolse Matilde, una bimbetta di sette anni che aveva appena imparato a leggere.
“Cari amici” – c’era scritto – “vicino al nostro paese c’è la casa della Befana. Ci hanno detto le nostre nonne che quando non è indaffarata per portare i doni ai bambini, questa Befana lavora un tipo di lana speciale, ricavata da pecore molto rare che vivono con lei. Non sono bianche o nere, ma colorate. E il loro pelo è così caldo che può sciogliere tutti i ghiacci del mondo. L’unico problema è che la Befana durante l’anno non regala nulla, ma dà la sua preziosa lana in cambio di denaro, che le servirà poi per comprare i giocattoli da portare ai bambini in gennaio.”
“Certo che se si potesse avere quella lana…” – disse Nina, la cugina di Matilde, che era stata ad ascoltare con attenzione – “Con l’uncinetto potremmo fare tante coperte da portare a tutti quelli che sono stati ghiacciati dalla Strega Gertrude. Loro si scalderebbero ed il gelo si scioglierebbe di sicuro!”
Legato al secondo palloncino, quello verde e blu, c’era un foglietto con una specie di listino-prezzi.

Un centimetro di filo per ogni lira io ti darò.
Con dieci soldi riesci solo a fare un tondino,
Ma se cinquanta me ne dai, ancora più bravo sarai!
Ci farai un bel cerchietto, lavorando con l’uncinetto.
Dammi cento lire e vedrai che vien fuori una stella.
Se più grande ancora la vorrai,
le duecento tutte d’oro mi darai.
Ma se i soldini son cinquecento,
ti do tanta lana da fare due fiori
Grandi e belli, di quattro o cinque colori.
E con la moneta da mille lire, ti do gomitoli a non finire…

“Ma come faremo?” – dissero i bambini in coro – “Noi i soldi non li abbiamo proprio!”
Giacomo, il più grandicello, ebbe un’idea:
“Chiediamo a tutti i bambini italiani di mandare alla Befana le monetine del loro salvadanaio. Anche quelle più piccole. Tutte insieme, basteranno a comprare tanta lana da farci mille fiori con l’uncinetto, grandi e piccoli, di tutti i colori. Poi li cuciremo insieme finché ricaveremo le coperte sufficienti per scaldare le vittime di quell’antipatica di Gertrude!”
“Che bella idea!” – disse la piccola Emma – “Mandiamo subito trecentotrentatre palloncini per chiedere la collaborazione dei ragazzi italiani! Mi ha raccontato la mamma che le loro vecchie lire fra qualche giorno non avranno più valore e saranno dimenticate, per lasciar posto a nuove monete. Cercando nei fondi dei cassetti, delle tasche e dei salvadanai, tutti insieme ci aiuteranno a costruire il miglior antidoto contro i dispetti di quella brutta Strega.”
E così il cielo di Mercandé si colorò di nuovo di palloncini variopinti: i messaggi con la richiesta di aiuto partirono per le Alpi e per gli Appennini, per Roma e per Canicattì (che nessuno sa dov’è, ma sta sempre lì).
Un biglietto arrivò anche a Rimini: un palloncino si impigliò, col suo filo, nella mano della statua del Papa, in Piazza Cavour. Molti bambini, curiosi, seguirono la scena, finché un piccione gentile prese fra il suo becco la cordicella e portò a terra il messaggio.
I ragazzi non persero tempo: capirono subito che l’incantesimo di Mercandé si poteva annullare anche con il loro contributo. Marco trovò subito nella tasca dei jeans tre monete da cinquecento e due da cento. Veronica portò in piazza il suo salvadanaio, dov’erano rimaste quattro monete da cinquanta e cinque da duecento. Cinzia chiese alla mamma qualche spicciolino e Dora trovò duecento lire nel fondo dello zainetto.
Tutti insieme, raccolsero in poco tempo un bel gruzzoletto di monetine e le mandarono subito, con pacco postale raccomandato cinque volte, ai bambini della Lombardia, che andarono di corsa alla casa delle Befana.
Prima di entrare, dovettero recitare una filastrocca, perché quella era l’unica maniera per farsi aprire la porta.

Conosci la Befana che vende la lana?
In febbraio la fila e a marzo la dipana,
In aprile e maggio, il riposo è un miraggio.
Un gomitolo sopra, un gomitolo sotto,
Con luglio ed agosto ne ha fatti trentotto.
In settembre ne ha piene le tasche,
Gomitoli qua, gomitoli là…
Mille colori di morbidi fili.
Dritti, contorti e pure ritorti,
un arcobaleno più caldo non c’è.
In ottobre son già piene tutte le ceste.
Accanto al camino, nel grigio novembre,
la dolce nonnina sferruzza, sera e mattina.
Diritto e rovescio, trecce e filé,
fa pure le frange col macramè.
E così, in dicembre, che fa un bel freddino,
tutti vorremmo il suo regalino.
Ma solo ai bimbi che per scaldarsi non han che la mamma
la Befana porta una coperta fatta da lei.
Quando? In gennaio: la notte del sei!

I soldi bastarono per comprare dieci sacchi pieni di lana di tutti i colori, che i bambini italiani mandarono subito a Mercandé, utilizzando uno stormo di piccioni viaggiatori.
Là i ragazzi stavano aspettando con impazienza, armati di aghi e uncinetti.
Matilde dirigeva i lavori e dava le istruzioni:
“Si avvia una catenella di sei maglie e si chiude a cerchio, poi si fa un giro con dodici maglie basse, e poi un altro giro con ventiquattro maglie alte. Un pippiolino qui e un archetto là…”
In pochissime ore ogni bambino aveva ricavato, dai gomitoli mandati dall’Italia, tantissime rondelline di lana.
Rosanna e Adonella continuavano incessantemente a cucire i fiori fra di loro, in modo da ricavare tante coperte belle calde.
Anche ogni più piccolo pezzettino di lana veniva utile: pure quello comprato per dieci lire!
Lavorarono un giorno e una notte…
All’alba, finalmente, non restavano più fili da intrecciare. Le coperte erano finite, morbide e calde, pronte per essere portate a quei poveri ghiaccioli che erano ancora sotto l’incantesimo della Strega del Nord.
Tutti insieme, i bambini corsero coi loro caldi pacchi negli angoli delle strade, nelle case, nelle scuole…
Ovunque c’era freddo, portarono le coperte fatte con la lana speciale della Befana.
E, subito, per magia, tutto il ghiaccio si sciolse…

“Dacché sono costì…”

Come i collezionisti più appassionati, gli amici dell’associazione Ippocampo (di cui sono socia fondatrice e attiva) sono capaci di passare serate intere a guardare e riguardare vecchie fotografie e cartoline alla ricerca di ogni particolare che possa aiutare a ricostruire la memoria dei luoghi e delle persone.
Nel vastissimo archivio di immagini raccolte fino ad oggi (di cui molte a disposizione di tutti, pubblicate nel sito www.ippocampoviserba.it) ci sono scatti e vedute che basterebbero a creare un’enciclopedia o una lunghissima serie di filmati. Patrimonio non solo visivo, ma anche testuale, se non altro per le storie che certe inquadrature ispirano. Oppure, come spesso succede, proprio per le parole scritte su foto e cartoline, che rimandano a persone con nomi e cognomi, a date ben precise, a luoghi e avvenimenti.
Fra le tante cartoline d’inizio Novecento ce n’è una spedita da Viserba nell’estate del 1909.
“Viserba. Corderia meccanica” è il titolo tipografico che descrive l’immagine in bianco e nero dell’allora famosa fabbrica “Dossi Giuseppe” (come scritto sull’edificio sulla sinistra). Ma la curiosità più intrigante è il lungo messaggio vergato a mano nella parte chiara della foto, che evidentemente voleva essere un “post scriptum” a quanto indicato sull’altro verso.

fronte
Ecco cosa scrive “zia Angioletta”, la mittente del saluto viserbese:
“Gentilissima Signora Carolina, Perdonerà se sono un po in ritardo a rispondere alla graditissima sua cartolina inviatami solo ora dall’Anita. Grazie a Lei e signorina Felicina de’ suoi cari auguri. Dacché sono costì mi sento molto meglio di salute e mangio con più appetito: presto verrà anche Anita che la desidero tanto, ora sono sola con Renzo.”
Sul retro, oltre al timbro postale “VISERBA (FORLI) 18 – 7 – 09”, la stessa grafia d’altri tempi continua con l’indirizzo del destinatario: “Gentil Signora Adelaide Colombo Sartore, Casa Orelli, Rodi Fiesso (Svizzera), Linea del Gottardo”.

retro

Anche il testo del messaggio è creativo: scritto in tutto lo spazio a disposizione, con tre righe aggiunte in alto ma capovolte rispetto al verso della cartolina.
“Carissima, grazie delle tue buone notizie, che speriamo ed auguriamo sempre buone; non diventare però la ‘donna cannone’. Noi tutti bene, qui ci troviamo colla solita amabile compagnia e quindi bene, avevamo un tempo un po’ autunnale, ora però sembra, purtroppo, che metta giudizio regalandoci un caldo che fa desiderare e invidiare il tuo soggiorno. Viserba è diventata una stazione balneare veramente scich e molto frequentata. Tanti saluti a Vito, baci a Carluccia e baci affettuosi a te dalla tua affez. Zia Angioletta.”
Sorridendo un po’ su quel “scich” vergato e poi corretto, che denota qualche dubbio sulla sua esattezza, ecco che, dopo più di un secolo, questo documento ci conferma che Viserba nel giro di pochi anni ha avuto uno sviluppo turistico fuori dal comune (“è diventata una stazione balneare veramente scich e molto frequentata”) e che era apprezzata per le virtù salutari e curative (“Dacché sono costì mi sento molto meglio di salute e mangio con più appetito”).
La nostra cronista d’antan è lei, la Zia Angioletta, che con la sua semplicità e spontaneità percepisce quanto poi documentato sullo sviluppo della Viserba balneare dagli storici più referenziati.

T’a’t arcòrd l’uragano?

Altroché, se me lo ricordo!
Avevo appena sei anni, ma quel pomeriggio di inizio giugno non lo dimenticherò di certo!
Abitavo a Gatteo a Mare e nell’orario in cui il cielo cominciò a minacciare burrasca e poi a rovesciare il finimondo ero con mia sorella e mia mamma nel “bassocomodo”, quella specie di garage (che oggi chiameremmo ‘dépendance’) in cui la famiglia si trasferiva nei mesi estivi per affittare la ‘casa bella’ ai bagnanti.
Il babbo, più pauroso di noi, era andato a rintanarsi da Nicio, il vicino di là dalla strada… Forse noi non avevamo fatto in tempo? Ricordo che ci stringevamo fra di noi, terrorizzate dai rumori che arrivavano da fuori.
Poi… il racconto dei disastri che erano avvenuti. Anche qui il ricordo di me bimbetta è nelle parole degli adulti: “…è volato via il tetto al condominio in fondo alla strada!”. E questo è ancora il pensiero che mi viene, spontaneo, ogni volta che passo davanti a quel palazzo, all’incrocio tra via Primo maggio e via Trieste.
Sono già passati cinquant’anni! Osta, però!

Ecco la cronaca di quel giorno tremendo in un articolo che ho trovato nell’archivio storico del quotidiano torinese “La Stampa.

Terrore e devastazioni sulle spiagge della elegante riviera di Romagna.
Spazzate le attrezzature balneari di Rimini, Riccione, Cattolica
Le riparazioni però sono già cominciate – Ore drammatiche nei «campings» allagati
(Dal nostro corrispondente) – Rimini, 9 giugno 1964.
Il tremendo nubifragio, che ha sconvolto ieri sera gran parte dell’Italia centro-settentrionale, ha colpito la riviera adriatica di Romagna verso le 19,30: a quell’ora violenti nembi cumuliformi provenienti dal nord si sono precipitati dal mare verso la costa alla velocità oraria di 104 chilometri, portandosi dietro una gigantesca ondata alta circa due metri. Così, mentre le raffiche di vento devastavano la costa abbattendo tronchi ad alto fusto, distruggendo insegne luminose, frantumando vetri e scoperchiando tetti, la furia della mareggiata si scagliava contro l’arenile, spazzandolo completamente da ogni attrezzatura balneare mobile, e si andava ad infrangere contro i lungomare, allagando scantinati di alberghi e sommergendo interamente tre accampamenti internazionali eretti sulla riva del mare a S. Giuliano di Rimini, a Fontanelle di Riccione ed a Misano. In queste ultime tre località sono stati sorpresi dalle acque vorticose circa due migliaia di turisti stranieri che giunti sulla nostra riviera con auto-roulottes, si erano attendati fra le pinete proprio ai bordi della riviera: la situazione si faceva quindi subito altamente drammatica per loro poiché la gigantesca ondata marina ha sommerso i campi sotto un metro e mezzo d’acqua, ponendo in grave pericolo la loro stessa vita. E’ stato allora un precipitarsi di soccorsi per salvare i campeggiatori: a S. Giuliano i carabinieri di Rimini, al comando del cap. Ennio Cicioni, han dovuto richiedere l’aiuto di alcuni automezzi speciali del 18° reggimento artiglieria, che si sono spinti nell’acqua fino ad una decina di metri dalla palazzina di cemento sita al centro dell’accampamento, dove si erano rifugiati più di cento turisti fra uomini donne e bambini; il salvataggio di questi ultimi al lume dei riflettori è stato quanto mai drammatico e solo l’abnegazione dei nostri carabinieri ha permesso che tutto finisse bene. Infatti, quando hanno visto che per gli automezzi era impossibile avanzare oltre, il cap. Cicioni ed i suoi uomini non hanno esitato a buttarsi nell’acqua. A Misano Adriatico i campeggiatori in pericolo erano più di mille ed anch’essi si erano ridotti intorno alla palazzina della direzione, verso cui si sono concentrati gli sforzi congiunti dei carabinieri di Rimini, coadiuvati da una compagnia di quelli bolognesi, e dei pompieri di Rimini, Forlì, Cesena e Pesaro; fortunatamente tutti hanno potuto essere salvati. Diverse decine di persone sono rimaste ferite per lesioni e contusioni procurate loro dai vetri rotti negli alberghi e pensioni: a Cesenatico il cinquantanovenne Dino Severi è stato colpito al capo nel crollo d’un capanno da pesca travolto dal vento ed è morto poco dopo all’ospedale; a Sant’Arcangelo di Romagna, in località Canonica, il quarantunenne Antonio rimaneva fulminato da un cavo ad alta tensione spezzato dal vento. A Rimini era dato per disperso il trentacinquenne Giuliano Drudi, scomparso durante il nubifragio, mentre a Cattolica, nelle operazioni di salvataggio di tre persone rimaste isolate in un bar sulla cima del molo, scompariva tra i flutti il sedicenne Fernando Cermaria, di S. Giovanni in Marignano, che aveva prestato la sua preziosa opera in aiuto ai carabinieri ed ai bagnini per salvare i tre pericolanti. Complessivamente i danni riportati fra Bellaria, Igea Marina, Viserba, Rimini, Miramare, Riccione, Misano e Cattolica, cioè i principali centri della riviera romagnola, si fanno ascendere a circa due miliardi di lire. Poiché però fortunatamente per la maggior parte ha subito danni l’attrezzatura mobile che può venire restaurata e sostituita in breve tempo, a Riccione il presidente dell’azienda di soggiorno, Carlo D’Orazio, ha dichiarato che in tre giorni le ferite potranno essere rimarginate.

Gli intraducibili: ‘na savarnèda ad….

Un tuffo nella lingua madre, che fa bene al cuore e alla pancia.

Dopo un pomeriggio di calore familiare con un folto gruppo di rappresentanti della Tenera Età (più di sessanta!) al primo compleanno degli incontri organizzati settimanalmente all’Oratorio Marvelli di Viserba Mare, sento l’esigenza di cercare fra le pagine del Dizionario Romagnolo Ragionato di Quondamatteo alcune delle parole “intraducibili” che ogni tanto fanno capolino nella mia memoria.

La prima, “savarnèda”, non è mai stata diretta a me, ma l’ho sentita più volte come minaccia a qualcun altro: “at dàg ‘na savarnèda ad bòti!” oppure “l’à ciapè ‘na savarnèdaad bòti“. Il Dizionario recita: “colpo violento, percossa. Dù savarnèdi. Ho ciap na savarnèda ch’à sò arvènz intramurtìd“.

La radanèda, invece, è l’aggiustatura, la rabberciata. Dat ‘na radanèda! datti un’aggiustata, mettiti in ordine! Radàna c’la cambra! Riordina quella camera!

Rungaja, mar.: pesce piccolo, misto, messo insieme, talora, con pesce ‘buono’ rovinato, morsicato nel travaglio della pesca; pesce da poveri, quindi: Ho tòlt mèz chel d’rungaja (ho comprato mezzo chilo di rungaia). Fig: si dice per bambini piccoli, gente di poco conto: cus èl sta rungaja! (cos’è questa rungaia?)

Quindi, morale della questione: par dè ‘na radanèda ma tòta c’la rungaja, u i vréb ‘na savarnèda ad bès 🙂

T’è capì?