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Pensieri sparsi di fine gennaio, tra fratelli e amiche blogger

Dunque dunque…

Al posto di un post vero (gioco di parole non casuale), stasera Cristella si limita ad una sorta di piccolo riassunto. Un mix di contatti personali (parentado e nuovi/vecchi amici) e contatti virtuali (blogger vicini e lontani).
Primo: i giorni della merla di cui al precedente post non sono – al momento – così freddi come dovrebbero. Prova ne sia la fotografia scattata da uno dei balconi “vista mare” (come si vede, non è un eufemismo) dell’Hotel Sporting di Cesenatico, durante la visita augurale per il compleanno del proprietario, tal Domenico Muccioli, fratellone di Cristella.
La spiaggia di Cesenatico a fine gennaio

Secondo: la blogger Danda linkata qui a destra, da neo-romagnola sta scoprendo, anche grazie a Cristella, dialetto, tradizioni, ricette… Eccola, sorridente, mentre porta la sua “ligaza” alla cena di venerdì scorso a Santa Giustina. Danda racconta la sua esperienza nel suo blog, regalando a Cristella, tra l’altro, una descrizione del suo carattere che forse non merita. (anche in versione inglese, per dare l’idea del target di lettori di Danda!).

Dana e la sua Ligaza

Terzo: Marina Garaventa, la mitica Principessa sul Pisello, ha sempre voglia di scherzare, nonostante la posizione “scomoda” in cui si trova. Nel suo ultimo post trascrive alcune barzellette molto simpatiche, che consiglio vivamente di leggere (stesso consiglio per tutto quanto scrive Marina, non ve ne pentirete).

Marina riceve la visita di Uòlter

La è gnara!

Burdéll, la è è gnara! (ragazzi, è dura!).

Questa frase, sepolta nelle pieghe della mia memoria di bambina, ha la voce di mio padre, grande lavoratore, che, nonostante i calli e la fatica, spesso ritornava dal cantiere a tasche vuote.

Uno dei ricordi più dolorosi della mia infanzia è quando il “padrone” rimandava a casa i suoi operai senza dar loro il dovuto.

Al primo giorno del mese, dopo cena, il babbo mi chiamava al tavolo della cucina (ero già la scrittrice della famiglia!). Su di un foglio strappato dal quaderno mi faceva fare il conto delle ore lavorate. Prendeva il calendario appeso al chiodo vicino al lavello e iniziava a dettare: lunedì 1 dicembre: 8 ore, martedì 2 dicembre: 8 ore, mercoledì 3 dicembre: neve (e giù imprecazioni!).

Poi, insieme, facevamo il totale. Il giorno dopo, con questo foglietto, si presentava al suo capomastro per chiedere il salario. Sembrava quasi lo mendicasse!

Erano gli anni Sessanta. Nel paese, per fortuna nostra e di tanti altri, ci si conosceva tutti e il rispetto reciproco era garanzia sicura per piccoli prestiti fra vicini e, da parte della bottegaia, per il librettino dove si segnava la spesa quotidiana.

Si saldava quando si poteva, di solito appena arrivava la busta-paga di quel “padrone” tirchio e furbastro (che con questi mezzucci s’è tirato su un bell’albergo in riva al mare).

Ricordo bene, quando andavo alla bottega per comprare mezzo chilo di zucchero e un litro di latte e invece di pagare facevo segnare sul librettino. Quest’ultimo, in fondo, era l’antenato della moderna carta fedeltà, che uso oggi al supermercato e che mi addebita tutte le spese a fine mese…

Ma torniamo alla frase che ispira questo post: “burdéll, la è gnara!”

L’ho rivolta alla mia giovane collega (che per questioni anagrafiche non conosce né il dialetto, né i tempi del librettino della spesa) qualche giorno fa. A metà mattina, nel pieno dell’attività quotidiana di informazione al bancone del Centro per l’impiego, eravamo già al livello di guardia. Il nostro ufficio è un vero crocevia di bisogni e di richieste a cui, con l’aria che tira, l’istituzione può dare poche risposte.

La è gnara, burdéll!

Dal mio punto di vista (sono “in trincea” da quasi trent’anni) posso tranquillamente affermare, senza timore di venire smentita, che a Rimini tanta gente in cerca di lavoro non s’era mai vista. Di tutte le provenienze (anche per i cercatori di lavoro Rimini è, storicamente, “terra di conquista”), di tutte le tipologie (generici, impiegati, specializzati) e di tutte le età (e questo fa molto male: quando arrivano persone della mia generazione o anche più grandi, troppo giovani per la pensione, troppo vecchie per riciclarsi).

Ma cosa possiamo offrire? Anche a Rimini si parla di aziende che chiudono e di cassa integrazione. Il turismo? Anche ad essere ottimisti, con la crisi globale, non so se tanta gente verrà in vacanza come in passato… I posti di lavoro stagionali – nel settore turistico-alberghiero e nell’indotto – ne risentiranno di sicuro.

Vabbè, speriamo che qualcosa cambi in meglio…

Immaginatevi, comunque, le mie giornate a cercar di dare risposte a persone che mettono avanti bisogni così immediati e fondamentali. Ci vuole una grande forza d’animo anche per stare da questa parte del bancone. Quella più tranquilla, perché, in sostanza, io un lavoro ce l’ho!

Come cerco di rendermi utile?

Lavorando senza dimenticare mai quella bambina che scriveva le ore sul foglio del quaderno, quel “padrone” avaro e disonesto, quel libretto della spesa con la copertina unta e bisunta…

Ah, un’ultima nota professionale: qualche link utile per chi sta cercando un lavoro.

Offerte Centri per l’impiego di Rimini e Riccione; offerte settore alberghiero della Riviera Romagnola; elenco Agenzie per il lavoro a Rimini; annunci di lavoro del settimanale Il Fo Romagna; sito infojobs.it.

Altri link utili nel sito del Centro per l’impiego.

Sperémma bén!

La neve di sant’Andrea

A Rimini l’abbiamo vista martedì mattina. Un paio d’ore, giusto per gradire. Verso le dieci era già sparita. Oggi, atmosfera decisamente uggiosa, sembra essere lì lì per arrivare. D’altronde, anche i proverbi lo dicono:

Par sant’André
o che néva o ch’ l’ha anvé.

Per sant’Andrea o che nevica o che ha nevicato.

Andrea Apostolo è il santo del 30 novembre. Dopodomani, quindi.

E questa volta il proverbio sembra dire proprio il vero.

Imparo anche – dal libro “Proverbi romagnoli” a cura di Umberto Foschi, Maggioli Editore Rimini 1980 – che le notti del 28, 29 e 30 novembre sono le più oscure dell’anno. Nel dialetto di Ravenna queste notti sono dette “i bur ‘d sant’André” e ispirano un altro proverbio:

Int i bur ‘d sant’André
o luna o lanterna s’t a t’vu sicuré e’ pé.

Nelle notti  buie di Sant’Andrea
o luna o lanterna se vuoi mettere al sicuro il piede.

Se poi invece della neve dovesse cadere la pioggia, tanto meglio. Perché:

Se e piov e’ dé ad sant’André
piènta l’ort e no i pensé.

Se piove il giorno di sant’Andrea, pianta l’orto e non pensarci.

Come volevasi dimostrare: la saggezza popolare si adatta ad ogni situazione…

 

Le cantarelle di Cristella

Dicesi cantarella una preparazione tipica romagnola fra le più semplici e povere. Acqua e farina, così come per la piada. Ma in proporzioni diverse. Anche la cantarella, come gli altri cibi del territorio, cambia ricetta di famiglia in famiglia. Un po’ come il dialetto, dove inflessioni e cadenze hanno mille sfumature e passano, negli anni, da padre in figlio (o da madre in figlia, quando si parla di cucina).

Féma dù cantarèli?”(facciamo due cantarelle?), era la proposta che a noi bambini faceva venire l’acquolina in bocca.

Ui vò la tègia ròssa e la legna bòna”, mi ha detto oggi, convinta, la Pierina d’e’ Zàqual, dall’alto dei suoi 97 anni. La teglia rossa per dire che il fuoco, sotto alla padella o alla teglia da piada, deve essere fortissimo, fino ad arroventarla. La legna buona, perché il modo migliore per cucinare le cantarelle sarebbe sopra un bel fuoco vero, nel camino o nella vecchia stufa a legna.

Dovendo arrangiarsi con l’attrezzatura presente nelle cucine moderne, Cristella ha usato una padella antiaderente posta sul fornello a gas aperto al massimo.

La ricetta è davvero semplice: si fa una pastella piuttosto densa con un bicchiere di acqua, ½ bicchiere di latte, 4 cucchiai colmi di farina, un cucchiaino di sale, un cucchiaino di bicarbonato. Quando la padella è molto calda, usando un mestolo si versa un poco di pastella fino a formare un disco del diametro di circa 10 centimetri. Si lascia cuocere da una parte per un paio di minuti (si formano delle bolle). Quando la cantarella si stacca facilmente dalla padella, la si gira dall’altro lato e si cuoce ancora per un minuto circa. Si continua così finché si finisce la pastella. Per mantenere tiepide le cantarelle, si dispongono in un piatto una sopra all’altra.

Il condimento tradizionale – il migliore in assoluto, secondo Cristella – prevede una spruzzata di zucchero semolato e un filo di buon olio extra vergine di oliva.

Hmmm! Mangiare per credere! Morbide, profumate, il sapore ricorda l’infanzia, apre il cuore, la pancia, la memoria…

Un’altra versione, pure questa legata ai sapori di casa, prevede la farcitura con composte dolci fatte dalle brave arzdore di una volta: e’ savor (o savour), la saba, i fichi caramellati, le marmellate casalinghe.

Le cantarelle, nella loro semplicità, sono strettamente imparentate con i pancakes anglosassoni, i blinis russi e le crèpes francesi. A casa mia si preparavano, di solito, in inverno, durante il Carnevale. E comunque di sera, dopo cena (tenendo presente che si cenava poco dopo il tramonto, verso le 18!).

Per chi volesse provare, potrebbero diventare anche una buona merenda. Genuvina genuvina!

Buon appetito!

Impasto

La cottura

La doratura

sono cotte!

e sono buone!

A mòl t’e’ dialèt

Un week end di full immersion nel dialetto.
Oddio, no! Non è proprio il caso di infilare quattro parole inglesi in una frase che ne conta otto in tutto. A cosa sarebbe servita la lezione?
Alòura: “un sàbat e una dménga a mòl t’e’ dialèt”. (allora: un sabato e una domenica a mollo nel dialetto).

Come avevo preannunciato qualche giorno fa, nell’ultimo fine settimana ho partecipato al seminario sulle lingue romagnole tenuto a Bellaria dall’attore Ivano Marescotti.

Per Cristella è stata un’esperienza decisamente piacevole e costruttiva. Gli “allievi” del prof. Marescotti erano, oltre a me, una quindicina di persone provenienti da diverse parti della Romagna. I più giovani sui trent’anni, la più “anziana” un’ex maestra che ci poteva essere mamma (non è fine svelare l’età di una signora).

L’aspetto più curioso delle due mezze giornate passate insieme a discutere di dialetti (a scòrr d’i dialét – notare, nel plurale, l’accento sulla “e”, che diventa acuto – visto che ho imparato le lezioni, prof.?) è stato verificare in presa diretta le differenze fra l’una e l’altra zona: anche nel raggio di qualche chilometro cambiano pronunce e inflessioni. Ma non solo: spesso sono diverse anche le parole che indicano la stessa cosa e persino la costruzione grammaticale delle frasi.

Per esempio: quasi dappertutto la mamma si dice “” , mentre nella zona ravennate (quella da cui proviene Marescotti), che tocca anche parte del territorio forlivese e cesenate, si dice “màma”, dove quella “à” che si avvicina ad una “e” viene pronunciata “alla portoghese”.

Fra le tante considerazioni, comunque, alcune certezze (di tutti, non solo di Marescotti).

Primo: il dialetto è – e rimane – una lingua orale e venendo a mancare, un po’ alla volta, la grande risorsa dei vecchi (coloro cioè che ancora pensano e parlano in dialetto) la perderemo.

Secondo: scrivere in dialetto è difficilissimo, sebbene ci siano precise regole di sintassi e grammatica.

Terzo (già detto): i dialetti sono tanti e diversi, spesso identificabili di famiglia in famiglia.

Quarto: fra i poeti che scrivono o hanno scritto in romagnolo, il più grande rimane Raffaello Baldini, di Santarcangelo. “Il più grande poeta italiano degli ultimi decenni” ha scritto di lui un noto critico letterario. Beninteso: il più grande italiano, non il più grande dialettale.

La sua capacità di essere tragico con ironia è la sfumatura che lo contraddistingue più di altre.

Riportare ancora una volta qualcuno dei suoi versi è un piacere.

Un consiglio: la poesia in dialetto va letta a voce alta. “Dài, próva ènca té!”

Mo acsè, dal vólti, quant a tòurn a chèsa,

la sàira, préima d’infilé la cèva,

a sòun, drin drin,

un’arspònd mai niseun.


Ma, così, delle volte, quando torno a casa, la sera, prima d’infilare la chiave, suono, drin, drin, non risponde mai nessuno.