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Sardoncini in due modi

Sardoni, sardoncini, sardoun…  In Romagna le alici si chiamano così. Proprio qualche giorno fa in una pescheria riminese un commerciante è stato multato per aver scritto, nel cartellino, il nome dialettale e non quello italiano. Ma fatemi il piacere! Quando si dice “mi dia un chilo di sardoncini”, se ne sente già il profumo. Altra cosa è “un chilo di alici”.
In graticola, magari schiaffati dentro a due quadretti di piada calda insieme a radicchi e cipolla (ma com’è che solo a scriverlo viene l’acquolina in bocca?)…

Vabbé, con queste chiacchiere Cristella voleva solo introdurre le due ricettine facili facili, ma gustosissime, puntualmente registrate dalla nuova macchina fotografica di Dora, la principessa numero uno.

1. Sardoncini marinati.

Togliere testa, interiora e lisca ai pesci, lavarli con aceto bianco.

sardoncini puliti

Farli marinare in una ciotola, per almeno un’ora, con abbondante succo di limone. Sistemarli in un piatto di portata e irrorarli con un condimento preparato con succo di limone, olio extra-vergine di oliva, sale, pepe.

condimento per sardoncini

Cospargere con prezzemolo e aglio tritati finemente.

sardoncini marinati

Si possono conservare a lungo: buoni anche dopo qualche giorno.

2. Sardoncini impanati al forno.

L’altra versione super veloce è una variante casalinga della tipica  “rustida” che spesso viene offerta nelle sagre romagnole. Non avendo sempre griglia e carbone a portata di mano, va bene anche il forno.

Tolte le teste e le interiora ai pesci, li si sciacqua e li si asciuga bene. Si condiscono con pangrattato, prezzemolo e aglio tritati, sale, pepe, olio. Si dispongono a raggiera in una teglia (un solo strato) e si spruzza sopra un altro po’ di olio.
In forno a 150 gradi per 15 minuti.

(Nella foto ci sono delle triglie: il procedimento è lo stesso).

triglie gratinate

Da mangiare caldi, a scottadito o, come detto, con vera piada riminese.
Buon appetito!

Buona Pasqua con le uova benedette

Ci sono tradizioni dure a morire…

Quest’anno Cristella ha deciso solo all’ultimo momento di andare in chiesa a portare a benedire le uova per la colazione del giorno di Pasqua.

E’ un gesto che in Romagna si ripete, da chissà quanto, nel pomeriggio del Sabato Santo. Ogni famiglia porta sull’altare il suo cestino di uova – crude o già rassodate – avvolte in un bel tovagliolino ricamato. E’ quasi una gara a chi ha il pizzo o il cestino più bello e delicato… Ai bambini, di solito, viene dato il compito di dipingere le uova o decorare il cestino stesso.

Don Giuliano, il parroco di Viserba, ha posto un bel cartello accanto all’altare: “Benedizione uova dalle 14.30, ogni mezz’ora”.

Cristella negli ultimi anni – da quando le principesse sono cresciute e non dipingono più il loro ovetto – aveva incaricato delle benedizione la sorella. Oggi, invece, ha voluto riprovare… Forse è anche un percorso suggerito da questi giorni così angoscianti.
Insomma, per farla breve: nella piccola chiesa di Viserba fra le 14.30 e le 15.00 è stato un continuo arrivare. Signore anziane, giovani donne e qualche papà coi figli tutti emozionati, alcuni uomini adulti… Molte persone che non frequentano spesso la chiesa… L’altare non è bastato. E si trattava solo della prima “mandata” di benedizioni! Don Giuliano ha dovuto aggiungere due panche per far posto ai cestini che continuavano ad arrivare.
Uno spettacolo commovente, che fa capire quanto le nostre tradizioni siano dure a morire.

Una bimba sui quattro anni accompagnava la nonna e, fiera, portava il suo mini-cestino.

“Ti posso fare una foto?”

Domani mattina, dunque, uovo sodo e una fetta di ciambella. Come da tradizione.

Ecco cosa scrive Vittorio Tonelli, noto scrittore folclorista, nel suo libro “Il diavolo e l’acqua Santa in Romagna”.

Le uova, che un tempo non si mangiavano durante la quaresima, si accumulavano in cucina per gli impasti delle pagnotte e dei passatelli, per essere cotte sode (quelle benedette) e servite a colazione al mattino di Pasqua, con la pagnotta.

Prima di mangiare si baciava l’uovo, si diceva un Pater-Ave-Gloria e si provvedeva a buttar il guscio nel fuoco, manifestando lo stesso rispetto usato dalla massaia per l’acqua di bollitura, che, considerata benedetta, si conservava come detergente prodigioso della pelle o si buttava, propizia, nell’orto o sulle siepi (o, comunque, dove non poteva essere calpestata).

Buona Pasqua a tutti!

Giustiniano Villa e il terremoto di Avezzano del 1915

Giustiniano Villa (1842 – 1919) è noto come il “poeta ciabattino” di San Clemente, paese sulle colline alle spalle di Riccione. In tempi in cui la gente non leggeva e radio e tv non c’erano Villa girava per le piazze di paesi e città a declamare le sue zirudelle, forma poetica un tempo molto diffusa in Romagna. Ne scrisse a centinaia, stampate su foglietti che vendeva a un soldo l’uno (il prezzo era spesso indicato negli ultimi versi della composizione, diventandone la chiusura). Un giornalista ante litteram, attento al sociale e alla vita politica nazionale e internazionale. Oltre ai noti “dialoghi e contrasti fra padrone e contadino”, infatti, Villa portava alla gente poesie sociali e cronache vere e proprie.

Come quella scritta nel 1915, intitolata “Le calamità presenti”.
Il riferimento è al terribile terremoto che, alle 7.48 del 13 gennaio 1915, rase al suolo la città di Avezzano, in Abruzzo.

St’an lé l’an dla distruziun
di paeis e del persoun.
Dov la guera cla ne arriva
a fe la stragie più attiva
le arrivat un ent fastidie,
e nemigh d’S. Emidie
la ballè la padvanela
at tl’Italia i qua centrela
che at chi pòst Lou la distrutt
omne, don, paeis e tutt.

Questo è l’anno della distruzione
dei paesi e delle persone.
Dove la guerra non arriva
a far la strage più attiva
è arrivato un altro fastidio
il nemico di Sant’Emidio
ha ballato la pavanella (antico ballo romagnolo)
nell’Italia qua centrale
che in quei posti Lui ha distrutto
uomini, donne, paesi e tutto.
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